Rivelazioni
a
Franz Schumi
1906
Il
popolo ebraico
al tempo di Gesù Cristo
Scritto cristiano-teosofico
N. 56
Il Padre, Gesù, spiega, attraverso Franz Schumi, le condizioni di vita del popolo ebraico al tempo della Sua incarnazione.
Titolo originale: Das
jüdische Volk zur Zeit Jesu Christ
Edizione in lingua originale:
Casa
Editrice di Franz Schumi a Zurigo;
Editore
su commissione: Cécil Nägel,
Altona (Germania)
Stampa
di Otto Bucholz in Amburgo (Germania)
Ristampe da Rudolf R. Hoff
Traduzione a cura del gruppo “Amici della nuova
Luce”
Premessa Il popolo ebraico al tempo di Gesù Cristo
Cap. 1 L’Impero
romano
Cap. 2 Il
popolo ebraico
Cap. 3 Le condizioni politiche, economiche, tributarie e sociali in
Palestina
Cap. 4 Il Tempio, i suoi tributi e il sacerdozio
Cap. 5 Sinagoghe
e maestri
1. Con la seguente comunicazione, il lettore sarà introdotto
in un lontano passato, in situazioni e condizioni che sono molto differenti da
quelli dei giorni d’oggi. C’è però un Nome che unisce quei tempi antichi con i
nostri, e su tutto l’abisso dei secoli e dei millenni è gettato un ponte,
questo Nome è Gesù Cristo. – “Chissà
com’era a quel tempo, quando il Signore e Padre nostro camminava
sulla Terra?”, si deve continuare a domandare il semplice lettore della
Bibbia. Certe cose di ciò che i Vangeli ci riferiscono, non sono comprese per
nulla, oppure comprese solo a metà, se non conosciamo quel tempo. Qui sarà
comunicato un po’ su quel tempo, per contribuire alla comprensione della storia
evangelica con una breve descrizione delle condizioni della terra della
Palestina e del popolo ebraico al tempo in cui Gesù esclamò: «Il tempo è
compiuto, e il Regno di Dio è venuto vicino!»
2. In primo luogo deve essere reso
evidente che in nessun modo siamo poveri di notizie sul periodo
di tempo in questione. È stato un secolo in cui è stato scritto molto.
Non solo Roma ha avuto i suoi scrittori (come Tacito e Svetonio, Orazio e
Giovenale), i quali ci aprirono una profonda impronta sulla vita e sui
movimenti del primo periodo imperiale, ma anche del popolo ebraico. Sulla
storia di Erode e della sua famiglia p.e. siamo pressoché
più precisamente informati da fonti contemporanee, come su molte dinastie dei
tempi moderni. E sulla vita del popolo ebraico al tempo di Gesù e dei Suoi
apostoli ci riferisce Giuseppe Flavio con dovizie di particolari, il quale [nell’anno 70] prese parte attiva all’ultima grande battaglia della
sua nazione contro i romani, ed ha descritto la distruzione di Gerusalemme,
quale testimone oculare, con terribile chiarezza.
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1. L’origine della nostra storia comincia con le parole: [Luca. 2,1] «Ora accadde che al
tempo dell’imperatore Cesare Augusto fosse emanato un decreto affinché tutti
gli abitanti dell’impero si registrassero».
2. Già da questo riconosciamo
che la Palestina, al tempo della nascita di Gesù, era una parte dell’Impero
romano, e stava sotto la supremazia dell’imperatore (sebbene a quel tempo non
ancora amministrata da funzionari romani, ma da Erode). Quest’Impero
romano è un avvenimento unico nella storia del mondo. Immaginiamoci tutti i
paesi nell’Asia anteriore, nel nord e sud dell’Africa, dell’occidente e nordest
dell’Europa uniti sotto un solo capo, e governato da una città, Roma. In Asia:
la Siria con la Palestina, le parti settentrionali dell’Arabia, una parte della
Mesopotamia, l’Armenia e l’Asia minore; in Africa: l’Egitto, il ‘granaio’ del mondo antico, i paesi odierni come Tunisia e
Tripoli (Libia), Algeria e Marocco; in Europa: la penisola pirenaica, l’Italia
con le sue isole, i Balcani con la Grecia, parti considerevoli dell’Ungheria e
dell’Austria, l’intera Germania meridionale, la Svizzera, il corso del Reno
dalla sorgente fino alla foce, i Paesi bassi, la Francia e l’Inghilterra fino
alla Scozia, – tutti questi paesi e popoli con circa 115 milioni di anime,
erano sottoposti a Roma. Questo gigantesco impero era suddiviso in 22 province, le quali erano governate dai discendenti delle
antiche stirpi romane. Dopo aver lottato per secoli per il dominio del mondo, e
poi, dopo aver raggiunto la meta, Roma aveva dilaniato se stessa in sanguinose
guerre civili, ma sotto il primo imperatore Augusto venne la pace all’interno
dell’impero, e solo ai confini, nel nord e nell’est, c’erano eccellenti legioni
disciplinate, occupate con la difesa o col domare i popoli barbari. I paesi
dell’Asia anteriore e del nord dell’Africa, che oggigiorno, dopo il millenario
dominio dell’Islam, sono interamente desolati, allora si trovavano nelle
condizioni più fiorenti. Essi erano ricchi di grandi città commerciali, e la
popolazione esercitava l’artigianato. Dove adesso sono stati costruiti poveri
villaggi su macerie e detriti, allora si ergevano superbi palazzi, ampi
anfiteatri e magnifici templi, e per le strade si muoveva un gran numero di
gente che contava a centinaia di migliaia. Si pensi a Corinto, Efeso,
Antiochia, Alessandria, Cirene e Cartagine, – città di cui solo
Alessandria ha ancora un’importanza per il presente. Il mar Mediterraneo
brulicava di navi. Carovane di mercanti attraversavano i paesi dell’Oriente su
numerose strade splendidamente costruite. I romani erano maestri nella
costruzione delle strade; essi ne costruirono per secoli e, ancora oggi, in
molti luoghi in Occidente e Oriente sono riconoscibili le loro strade, i loro
ponti e i loro acquedotti. Sulle strade romane un viaggiatore con un carro
poteva percorrere in 24 ore dai 150 ai
3. A questo collegamento esterno con
mezzi e vie di comunicazione, si aggiunse quello interno, la fusione spirituale
dei popoli sottomessi a Roma, in particolare attraverso l’ampia diffusione
della cultura e lingua greco-romana. In tutti i settori della vita penetrarono
usi, costumi e istituzioni romane e, ancor più, quelle greche. Sulle monete dei
diversissimi popoli troviamo immagini degli déi greci. Il culto divino
dell’imperatore romano divenne religione dell’Impero e, mentre nei paesi
occidentali predominava la lingua latina, in Oriente la lingua
greca aveva trovato molto più accesso che presso di noi in tempi moderni il
francese. Anche la lingua liturgica degli ebrei al di fuori della
Palestina era di solito la greca; perciò anche l’apostolo Paolo nella sua
attività missionaria e nei suoi scritti, si serviva della stessa. – Così a quel
tempo le barriere nazionali caddero, gli usi e costumi, lingue e concezioni
religiose dei popoli antichi, si ruppero, oppure furono ricacciati davanti al
collettivo che li accomunava tutti. In qualche modo, quando nel Vangelo fu
annunciata una salvezza e un Salvatore, quel tempo si poté anche comprendere,
in quale mondo e quale umanità era.
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1. In quei tempi di crescente fusione dei popoli, uno
aveva saputo certamente conservare con molta efficacia la propria singolarità:
il popolo ebraico! Tra questo popolo e le restanti nazioni, specialmente quelle
greche e romane, esisteva un profondo abisso. L’ebreo disprezzava i pagani come
cani immondi. Egli non doveva entrare nelle loro case senza necessità, nemmeno
mangiare i loro cibi; né latte, né olio, né carne, né pane. Sacerdoti ebrei che
si trovavano sotto la prigionia romana, preferivano cibarsi solo con fichi e noci,
piuttosto che nutrirsi alla tavola dei pagani. Nemmeno si doveva accettare
benefici dagli idolatri, perché questi sarebbero stati dannosi come il veleno
delle vipere. – Fin dove si andava nel disprezzo delle usanze religiose pagane,
lo dimostra un aneddoto che Giuseppe Flavio riferisce: una schiera di soldati
greci, tra loro un arciere ebreo, era in cammino verso l’Egitto. Strada facendo
si volle sapere se la loro spedizione avrebbe avuto successo, e pregarono un
sacerdote pagano di pronosticarla dal volo di un uccello. Come il guerriero
ebreo sentì questo, tese il suo arco, abbatté l’uccello e dichiarò così ai
compagni sdegnati: poiché l’uccello non conosceva nemmeno il suo stesso futuro,
avrebbe ancor meno potuto indicare il loro!
2. D’altra parte, però, nessuna nazione
nell’impero romano era così odiata e detestata come l’ebraica. Scrittori greci
e romani gareggiavano in espressioni di disprezzo contro questo popolo incolto
e scellerato. Si credeva alla sciocca favola che erano discendenti da lebbrosi
che, cacciati dall’Egitto, erano stati condotti a Canaan
da Mosè. Si rinfacciava loro che nel Tempio di Gerusalemme adorassero una testa
d’asino. Li si scherniva perché non mangiavano carne
di maiale e perché ogni settimo giorno della settimana, quindi la settima parte
della loro vita, si davano all’ozio. Si riteneva follia che di Sabato si sarebbero lasciati massacrare, piuttosto che prendere
un’arma (sebbene la legittima difesa fosse permessa anche di Sabato). La
religione ebraica, la venerazione di Dio senza immagini e senza attenzione ai
segni precursori – fuori di Gerusalemme anche senza tempio, altari, sacerdoti e
sacrifici – sembrava, a molti romani assai colti, di essere solo una vergognosa
‘superstizione’ e di non meritare per niente il nome ‘religione’. Così e similmente sentenziavano Cicerone e Plinio, in particolare
Tacito diceva: “È una razza odiosa agli
déi e agli uomini! Là da loro,
è profano tutto ciò che da noi è sacro. Al contrario, ciò che
da loro è permesso, per noi è un fatto orrendo!”. Tacito, del resto
così giusto e lungimirante, il quale aveva descritto la vita e le opere dei
peggiori nemici dell’impero romano, come delle tribù germaniche del nord con
evidente entusiasmo, sugli ebrei non riuscì a riferire quasi null’altro che
cose spregevoli! Se riflettiamo e consideriamo che il Salvatore discendesse da
questo popolo, e quindi la salvezza è venuta per tutti dagli ebrei, dobbiamo
dire con Paolo: “Ciò che è stolto dinanzi
al mondo, Dio lo ha scelto affinché perisse la
sapienza dei savi”.
3. Tuttavia, il popolo ebraico a quel
tempo aveva un gran potere e un’estesa influenza nell’impero romano. Non solo
dalla distruzione di Gerusalemme [70 d.C.], ma già al tempo di Gesù per la maggior parte era
sparso nei paesi e sulle coste e isole del mar Mediterraneo. Nella maggior
parte delle grandi città gli ebrei avevano le loro colonie e sinagoghe e
vivevano lì a migliaia come artigiani e commercianti. Solo a Roma c’erano
33.000 ebrei. In tutto l’Egitto più di dieci volte tanti. In Alessandria c’erano
due dei distretti urbani in prevalenza abitati da ebrei. Secondo le
dichiarazioni del Padre Gesù, nell’anno 30, con le sue
5.753.000 anime, in tutto l’impero romano esso era il 5% della popolazione. E
ai confini dello stesso, in Mesopotamia e oltre, in Persia fino al di là del mar Caspio, vivevano milioni di loro. Da dove
il loro gran numero? Per quanto incredibile possa sembrare, è comunque un dato
di fatto che essi si moltiplicavano non solo attraverso l’eccedenza delle
nascite sui casi di morte, ma anche attraverso numerose conversioni. Nonostante
tutto l’odio e il disprezzo cui gli ebrei erano esposti, intere schiere di
pagani eruditi e non, si facevano accogliere nella collettività nazionale
d’Israele attraverso il battesimo e la circoncisione. Gli appartenenti di tutti
i popoli e classi erano molto numerosi, non di meno c’erano anche i nobili
signori e signore romane che cercavano la pace delle loro anime nel Tempio di
Gerusalemme e nell’obbedienza verso la legge d’Israele, sicché al tempo di Gesù
uno scrittore ebreo (Filone) poté affermare: “La Legge divina attira tutti e converte tutti, ellenici e barbari,
abitanti della terra ferma e delle isole, popoli dell’Oriente e dell’Occidente,
europei e asiatici, l’intero mondo è abitato da un estremo all’altro”. – Ma anche a prescindere da questo, l’influenza degli ebrei
era grande. Se si voleva denaro – lo si trovava dal
banchiere ebreo; se si desiderava magia – si correva dallo scongiuratore ebreo,
il quale possedeva anatemi particolarmente forti; se si cercava verità e
certezza su faccende divine – si andava dal maestro ebreo e ci si lasciava
iniziare da lui nelle Sacre Scritture. Era ampiamente diffusa allora, anche nel
mondo pagano, la profezia di un grande re che sarebbe sorto dalla Giudea ed avrebbe portato giustizia e pace al mondo miserabile. Il
poeta romano Virgilio ha descritto questo futuro beato tempo del raccolto, con
parole che prese a prestito dalla profezia della Sibilla dell’Eritrea.
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1. Passiamo
ora alla vita politica, sociale e
religiosa di questo popolo straordinario e singolare al tempo di Gesù e nel
paese della Palestina. Chiediamoci: “Chi
erano i suoi governanti, i suoi sacerdoti e i suoi maestri?”
2. Diamo uno
sguardo al Nuovo Testamento. Là incontriamo ovunque,
tracce del dominio romano. Sentiamo di un governatore romano Ponzio Pilato nel
cui tribunale fu condotto Gesù, e che – sebbene dopo lunga resistenza –
convaliderà su di Lui la condanna a morte. Sentiamo di soldati del governatore
che hanno crocifisso il Signore, spartirono tra loro
le Sue vesti e, più tardi, sorvegliarono il Suo sepolcro. Gli Atti degli
apostoli ci riferiscono di un comandante italiano, Cornelio di Cesarea, e degli
interrogatori che Paolo dovette sostenere dai governatori Felice e Festo nella
città medesima.
3. In effetti, nei dieci anni dopo la
morte del re Erode (“il grande”), a noi ben noto dalla storia del Natale e tuttavia
mal rinomato, la parte meridionale e centrale della Palestina, la Giudea con la
Samaria, era diventata totalmente provincia romana, ed era governata da un
procuratore o governatore dell’imperatore romano, mentre il nord e il sud del
paese, la Galilea e la Perea, rimasero ripartiti
ancora per oltre vent’anni tra i figli di Erode, i sedicenti tetrarchi Antipa (gli assassini di Giovanni Battista). Il procuratore
aveva il comando su tutte le truppe che presidiavano nelle numerose fortezze
della provincia. – Solo Gerusalemme aveva 1.000
soldati, i quali sostavano nella fortezza ‘Antonia’, proprio vicino alla piazza
del Tempio. Cesarea, la residenza del governatore, aveva dai 3000 ai 5.000
soldati. Sua faccenda era inoltre la gestione delle finanze; di tanto in tanto
anche la riscossione dei tributi. Infine era anche il giudice supremo nel
paese. Solo lui aveva il diritto di vita e di morte.
Senza la sua convalidazione – come abbiamo visto dalla storia della passione –
non potevano essere eseguite esecuzioni capitali.
4. All’interno di questi confini, però,
il popolo ebraico godeva di una buona dose di libertà,
poteva vivere secondo le sue stesse leggi. Il suo governo nazionale era il Sommo
Consiglio, il quale è a noi altrettanto noto dai Vangeli. Esso consisteva
di 71 membri, presieduto dal sommo sacerdote in
carica. A lui appartenevano i figli delle più nobili famiglie dei sacerdoti di
Gerusalemme, gli uomini tra i quali si usava scegliere
allora i sommi sacerdoti; inoltre, i più rinomati scribi, oppure esperti delle
leggi (teologi e giuristi nello stesso tempo), che presso il popolo godevano
incondizionato rispetto; infine i capi delle grandi famiglie non sacerdotali di
antica discendenza, i cosiddetti “anziani”. Questo Sommo Consiglio non era in nessun modo, come si è spesso pensato,
solamente un’autorità spirituale, un Consiglio ecclesiastico, ma per la Giudea
era, nello stesso tempo, la somma autorità cittadina che aveva il diritto di
interpretare la legge mosaica esistente, e vigilare sulla sua osservanza; era l’autorità giuridica suprema nel paese,
– a questo era affidato il disbrigo di tutte quelle controversie e cause penali
che non potevano essere decise dai tribunali locali inferiori. Tutto questo,
naturalmente, era sotto la sovrintendenza del governatore, il quale poteva
interferire a sua discrezione. – Anche in Galilea ogni località più grande
aveva una propria sede giuridica e amministrativa costituita da sette persone;
le città, invece, un Consiglio di 23 persone, cui
erano subordinati anche le sedi dei villaggi limitrofi. Oltre
a ciò, nel nord ed est della Palestina c’era un numero di città ‘libere’
che, come “alleate” dell’Impero romano, erano esenti da tributi imperiali e
stavano direttamente sotto la sovranità dell’imperatore.
5. A molte città e paesi dell’Impero,
erano del resto concessi una misura maggiore o minore
di autonomia e una propria competenza giuridica. Ma
anche in altri rapporti il governo imperiale aveva immeritatamente molto
rispetto per le caratteristiche del popolo ebreo. Per riguardo al comandamento
del Sabato, a causa di questo gli ebrei non erano costretti al servizio
militare. Per riguardo al divieto d’immagini, essi ottennero il diritto di
coniare, nella Giudea, monete di rame senza l’immagine dell’imperatore. Per
riguardo soprattutto alla fede in Dio, cioè mentre nell’Impero romano venivano eretti ovunque altari e statue dell’imperatore, per
portar loro offerte e adorazione come déi, il popolo ebreo rimase del tutto dispensato
da questa idolatria della religione di Stato. Anzi, la considerazione era così
grande, che nell’anno 37 dopo Cristo il comandante romano Vitellius,
il quale doveva recarsi con un esercito dal nord del paese a Petra (a sud del
Mar Morto), fece una notevole deviazione intorno alla Giudea per non offendere
per nessun motivo la suscettibilità ebraica alla vista delle insegne militari
romane, con l’aquila e l’immagine dell’imperatore.
6. Rivolgiamoci
ora alla condizione economica della
Palestina. La parte nord della stessa, la Galilea, era allora un Paese
prospero, costellato di città e villaggi. Poteva essere la metà del canton dei Grigioni in Svizzera. Su questo territorio
limitato, secondo le dichiarazioni di Giuseppe Flavio, dovevano esistere 204
città e grandi villaggi con una popolazione di più di 3.000.000 di anime. Questa dichiarazione è certamente esagerata. Era
però sicuramente uno dei paesi più popolati della Terra. Qui non c’era un solo
pezzettino di terra senza proprietario. I prati erano rari, la maggior parte
erano campi arati, e questi campi erano
eccellentemente coltivati a frumento e mais, lino e cotone. In particolare il
paesaggio alla riva occidentale del Mar di Galilea, la pianura di Genezareth, dove Gesù tanto spesso aveva raccolto intorno a
Sé il Suo popolo e annunciato il Messaggio del Regno di Dio, era come un
rigoglioso giardino dalla bellezza paradisiaca. Il lago era ricco di pesci.
Alla parte sud dello stesso, verso Tarichea, si
praticava un redditizio commercio di pesce. Il paese era abitato da una
popolazione attiva e intelligente. Erano sviluppati anche artigianato e
industria (in particolare la tessitura del lino). Al contrario dei greci e
romani, la lavorazione a mano dei giudei era molto onorata, tanto che perfino
gli eruditi dovevano essere in grado di esercitare un mestiere. Più di cento
autorevoli rabbini portavano nel Talmud[1]
un soprannome che indicava il loro mestiere, come calzolaio, sarto, fornaio,
costruttore edile, necroforo, becchino, fabbro, vasaio, tessitore (Paolo) ecc.,
un motto rabbinico suonava: “Chi non
insegna a suo figlio un mestiere, costui fa come se volesse far
di lui un brigante”.
7. In più di un rapporto la condizione
della Galilea era diversa dalla Giudea. Questa regione era molto meno fertile,
bensì selvaggia e montuosa. Regioni amene, riccamente benedette, come Betlemme Efrata – ‘la Fertile’ – erano oasi
in un deserto di pietre. All’opposto, le diecimila pecore che pascolavano sui
pascoli montani della Giudea, costituivano il naturale patrimonio del paese. La
fonte di reddito più importante e sempre ultraricco della Giudea, era però il
tempio di Gerusalemme, al quale tutti gli anni,
milioni di pellegrini portavano tesori da tutti i paesi.
8. Tuttavia la situazione economica del
popolo in entrambe le parti del Paese non era favorevole. Esso era oppresso dai
tributi, schiacciato da pesi d’ogni genere. Subito dopo la morte
dell’imperatore Augusto, proprio per questo motivo si recò una delegazione
dalla Siria e dalla Giudea a Roma, dal suo successore Tiberio, per descrivergli
la difficile situazione di queste province e chiese un alleggerimento dei
fardelli. Com’era dunque la situazione coi tributi?
Nell’Impero romano i cittadini e gli alleati, quindi soprattutto gli abitanti
dell’Italia, erano esenti da imposte. Al contrario, i paesi sottomessi dovevano
sostenere i costi dell’amministrazione e gli oneri militari dell’impero. Allora
esistevano due tipi di imposte dello Stato: la prima, un’imposta
personale patrimoniale che ogni individuo femminile dall’età di 12 anni, ogni
individuo maschile dall’età di 14 anni fino ai 65 anni doveva adempiere, e
ammontava dell’1% del patrimonio; la seconda, un’imposta sul reddito fondiario:
il 10% del provento annuale del frumento e il 20% – quindi un quinto – di
quello delle vigne e dei frutteti, appartenevano allo Stato. A ciò si aggiungevano anche forniture di grano per l’esercito romano
e per la stessa città di Roma, dove, a spese dello Stato, erano mantenuti
continuamente centomila oziosi che ai tempi di Cesare erano diventati perfino
320.000! – E con ciò erano tenuti di buon umore. Inoltre, la provincia doveva
provvedere per il mantenimento del loro governatore e dei suoi funzionari, i
quali pretendevano e prendevano ciò che desideravano. Le imposte erano riscosse
per la maggior parte dai governatori, ma a volte – in particolare in tempi più
lontani – date in gestione a Roma per cinque anni a coloro
che facevano la migliore offerta. Queste erano società di forti capacità
finanziarie che, attraverso l’applicazione della pressione fiscale, senza
riguardo e senza pietà, cercavano naturalmente, non solo di estorcere dalle
province la somma data in gestione, ma anche un notevole guadagno netto. –
Similmente andava con le dogane:
anche queste erano date in gestione. C’erano i dazi dei confini, dazio dei ponti, dazio delle vie, dazio dei portoni. In
certi luoghi la merce, ogni volta che era oltrepassato il confine di un paese,
doveva essere sdoganata due volte e tre volte. Con
ciò, molte cose erano rincarate ingiustamente, oppure il produttore non
riusciva a far nulla. L’ammontare del dazio prescritto era di solito ignoto
all’uomo comune, perché le tariffe non erano pubblicate. Perciò la richiesta di
un prezzo era, di solito, esagerata. Gli altolocati doganieri aristocratici
volevano fare magnifiche speculazioni, e i loro impiegati inferiori li
imitavano: questi erano i doganieri dei quali leggiamo così spesso nei Vangeli.
Da ciò comprendiamo il disprezzo che il giudeo onesto aveva per il mestiere del
doganiere. Perciò negli scritti giudaici, doganieri e ladri erano messi sullo
stesso gradino. Da ladri e doganieri non si doveva accettare elemosina; mentire
a ladri e doganieri era permesso. Quanto grande deve
essere stata l’ignominia del nostro Salvatore agli occhi del Suo popolo, quando
Egli era chiamato «l’Amico dei doganieri e dei peccatori», quando
si diceva di Lui: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!» – Oltre a ciò, la misericordia anche verso i fallibili, in
particolare verso i propri connazionali; far valere grazia per diritto, era
spesso una ripetuta rivendicazione degli scribi.
9. Ai tormenti del popolo ebraico – in
genere di molti popoli dell’impero romano –
appartenevano in particolare anche i governatori o procuratori. In gran parte
erano (tuttavia con elogiabili eccezioni) persone ingorde, avide di piaceri e
senza qualsiasi coscienza del dovere, le quali
cercavano di rifarsi della vita monotona nella provincia, lontani dagli amici
della città imperiale, attraverso illimitate estorsioni appena credibili. Come
ci viene appunto riferito di un governatore della
Siria (Gebinius), il quale durante il suo servizio di
tre anni – dico tre anni – estorse per sé oltre 100 milioni di denari (1 denaro
= 70 centesimi). Un altro, il generale Crassius,
portò via dal tesoro del Tempio di Gerusalemme, oro e oggetti preziosi nel
valore di 95 milioni di franchi, che egli mise nella sua tasca smisuratamente
larga. L’imperatore Tiberio aveva perciò la buona regola di lasciare il più a
lungo possibile i governatori negli stessi posti; essi facevano, disse lui,
come le mosche sul corpo di uno gravemente ferito: quando si erano nutriti,
avrebbero rallentato le loro estorsioni, mentre i nuovi avrebbero ricominciato
sempre daccapo.
10. In particolare doveva soffrire sotto
l’imposta fondiaria il ceto rurale; i funzionari,
infatti, facevano tassazioni arbitrarie e opprimevano con alte imposte coloro
la cui diligenza lavorativa poteva contribuire più di tutto al benessere del
paese. Il piccolo contadino ipotecato aveva un brutto momento. Non mancavano
nemmeno gli usurai che gli concedevano prestiti ad
interessi troppo alti. A volte sentiamo qualcosa di queste condizioni infelici
dai Vangeli, in particolare dalle parabole di Gesù. Anche uno degli apostoli
(Giacomo) si lamentava contro i ricchi spietati: [Giac. 5,4-5] «Ecco, il salario dovuto
agli operai che hanno mietuto i vostri campi, ma che è da voi frodato, continua
a gridare, e le grida d’aiuto dei mietitori sono giunte agli orecchi del
Signore degli eserciti. Siete vissuti sulla Terra nelle delizie e vi siete dati
ai piaceri, avete ingrassato i vostri cuori nel giorno del massacro».
11. Così il popolo soffriva duramente sotto l’avidità
dei procuratori, sotto l’arbitrio dei funzionari doganali e dei tributi, e
sotto la pressione degli usurai, i quali costringevano gli impoveriti nella
miseria, e strappavano a sé le proprietà indebitate. – Non soltanto oggi, ma
già allora esistevano questioni sociali, un riformatore sociale
sarebbe stato da molti certamente accolto a braccia aperte.
12. Tuttavia non erano gli abusi
sociali, ma molto di più quelli religiosi e gli interessi nazionali che
spingevano il popolo ebraico nel suo abisso. Esso, volontariamente, portava
pure i grandi pesi per il Tempio, per il culto e per il sacerdozio. Ma che il santo popolo di Jehova dovesse
essere sottomesso ai popoli del mondo, che la terra promessa, la proprietà del
Signore, dovesse dare i suoi frutti ai pagani, agli idolatri, questo, all’uomo
ebreo, anche ai credenti galilei, sembrava incomprensibile. In tutta serietà, e
non solo per tentare Gesù [Matt. 22,17], allora si discuteva
sulla questione: “È
giusto che paghiamo il tributo all’imperatore?”. E la risposta era
pressappoco: no! Non è giusto; perché il nostro paese e il nostro popolo
appartengono a Jehova, al Re di tutta la Terra! –
Quando perciò nell’anno settimo dopo Cristo fu ordinato
dal governatore romano della Siria (Cirenio) una
generale perizia del possesso terriero, per poter determinare da ciò l’imposta
fondiaria, insorse un uomo della Galilea, Giuda di Gamala,
il simbolo della ribellione, e chiamò il suo popolo alla santa lotta per il
diritto di Jehova. La ribellione fu repressa dalle
truppe romane e, da questo momento, continuò ad ardere sotto la cenere il fuoco della ribellione, per sessant’anni, fino
all’ultima orribile lotta con la potenza romana. Dai seguaci del galileo Giuda
si formò il partito degli zeloti (zelatore, fanatico), i quali con le armi in
pugno volevano spianare la via al Messia e al Suo Regno, e liberare Israele dal
dominio straniero.
13. È molto singolare
che proprio in questo tempo sia apparso Gesù Cristo, per indicare al Suo popolo
profondamente agitato, la via che conduce alla pace. Egli aveva la più intima
compassione per le sofferenze del Suo popolo, e siccome vedeva la moltitudine,
questo Lo affliggeva, perché erano come pecore che non
avevano pastore. Conosciamo le Sue lacrime su Gerusalemme, la quale non
riconobbe il Tempo della Grazia di Dio. Conosciamo anche il Suo invito: «Venite a Me, voi
che siete stanchi e aggravati, Io vi voglio ristorare!»”. Ma a differenza di quegli
uomini violenti come Giuda di Gamala, dei suoi figli
e dei suoi seguaci, Gesù non è apparso come Eroe della libertà, non su un
superbo destriero Egli è entrato in Gerusalemme, ma così, come il profeta
Zaccaria aveva profetizzato: [Zacc. 9,9] «Ecco, il tuo Re viene a te, un Giusto e un Vittorioso, umile
cavalca su un asino, sopra un giovane puledro dell’asina». Egli non ha nemmeno accettato il ruolo di un
riformatore sociale, che oggigiorno Gli si vorrebbe assegnare; non ha nemmeno
accolto la richiesta di un uomo che Lo ha invocato
come giudice nella disputa di successione [Luca 12, 13-14]. Esteriormente Egli ha lasciato tutto nel vecchio,
ma ha reso efficaci le Forze di Dio attraverso la Sua Vita e il Suo morire per
il rinnovamento e la rinascita delle anime umane; e queste forze di Dio devono continuare ad agire, devono creare una nuova umanità,
un nuovo mondo, finché non sarà adempiuta la Sua Parola: «Ecco, Io faccio tutto nuovo!».
[indice]
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1. Passiamo
alla vita
religiosa del popolo ebreo. Il punto centrale della stessa era la città
di Gerusalemme e, in essa, il santo Tempio. Questo
Tempio, dapprima costruito da Salomone, poi distrutto da Nabucodonosor, dopo il
ritorno dalla prigionia babilonese, a stento nuovamente edificato di legno, fu
ricostruito nuovo con grandiosità a profusione da Erode il grande. Secondo la
tradizione giudaica che ama grandi cifre tonde, 10.000 operai avevano portato
il materiale; 1.000 sacerdoti, istruiti nei lavori di carpenteria e lavori di scalpellino, costruirono la vera e propria casa
del Tempio; 18.000 artigiani furono occupati per anni e ricevettero il loro
salario giornalmente. Il re iniziò l’opera intorno all’anno venti, prima della
nascita di Cristo, ma non la portò a termine; si lavorò per ottant’anni con
interruzioni, finché la magnifica costruzione trovò la sua ultimazione sotto il
governatorato di Albinus [62 – 64 dopo Cristo] –
quindi prima della distruzione per opera dei romani. “Chi non ha visto la
costruzione di Erode, non ha mai visto qualcosa di bello”, suonava una massima
del tempo.
2. Immaginatevi muri su muri, consistenti di enormi lunghi quadrati 16-
3. In questi periodi festivi, alla
pasqua degli ebrei, alla festa della settimana e alla festa dei tabernacoli,
tutti gli uomini d’Israele, per la maggior parte con moglie e figli, andavano su a Gerusalemme, in modo che nel paese degli ebrei
molti villaggi e città erano quasi vuoti. Secondo una dichiarazione di Giuseppe
Flavio, il quale si riempiva volentieri la bocca, in
periodi simili si accampavano circa tre milioni di ospiti maschili nella città
santa e nei villaggi del circondario. Ma non solo per
le grandi festività annuali, bensì durante l’intero anno venivano i pellegrini
a migliaia da tutte le contrade del paese, anzi da tutte le parti dell’Impero
romano, per portare le loro offerte e voti al Tempio. E non soltanto il clero,
ma tutta Gerusalemme e la popolazione del territorio ebraico circostante viveva della venerazione dei luoghi santi, cosa che era gioia
e delizia del popolo ebraico, il suo orgoglio e il suo idolo. Il Tempio di
Gerusalemme era considerato il più ricco di tutta l’Asia; perfino imperatori
romani mandavano le loro offerte votive.
4. E ora il sacerdozio di questo Tempio.
Secondo la dichiarazione del Padre Gesù, al Suo tempo vivevano 8.000 sacerdoti
in Gerusalemme e 8000 nelle cittadine del paese degli ebrei. A questo si
aggiungevano i leviti, i cantori, le guardie delle porte, i servitori del
Tempio, ecc. I sacerdoti, i successori di Aronne, dovevano essere una classe
molto santa. Perciò si teneva moltissimo alla corporea purezza e senza macchia;
erano citati per nome 142 difetti e imperfezioni che potevano escludere un
discendente di Aronne dal servizio nel Santissimo. L’intero sacerdozio era
suddiviso in 24 classi di servizio, al loro vertice
stava il sommo sacerdote. Egli non era solamente il sacerdote supremo che
doveva stare dinanzi a Dio per tutto il suo popolo, e il solo che avesse il
diritto di entrare una volta all’anno, nel giorno del
grande digiuno, nell’Onnisantissimo con il sangue del
sacrificio espiatorio, – era, nello stesso tempo, anche il legittimo principe
mondano e spirituale su Israele, da quando Israele aveva perduto i suoi re
nazionali discendenti dalla casa di Davide. Con profondo rispetto, il popolo
s’inchinava davanti al rappresentante e unto di Dio, il quale doveva esercitare
a vita la sua alta carica e doveva trasmetterla al suo figlio più anziano.
5. Le entrate del clero erano molteplici. A questo
erano offerte le primizie dei proventi della campagna: frumento, orzo, uva,
miele, fichi, olive e melagrani. Ad esso apparteneva
ogni anno il meglio, ‘la percentuale’ dei frutti dei campi e degli alberi,
circa 1/50 del raccolto. Dopo la presa di questi due tributi veniva
pure separata ancora ‘la decima’ di tutto ciò che serviva per il
cibo, e questo era custodito e riceveva la sua crescita dalla terra, ed era
portato a Gerusalemme in valore naturale o in valore monetario. La decima era
originariamente destinata ai leviti, ma a questi di solito era ritenuta
ingiustamente dai sacerdoti. A questi tributi regolari, che annualmente si
ripetevano, si aggiungeva ancora una quantità di
tributi occasionali: la maschile primogenitura del bestiame; una somma di
riscatto per ogni figlio primo nato (nell’ammontare di circa 16 Fr.); tre parti
di ogni animale che era macellato per l’uso domestico; due parti delle offerte
di ringraziamento; degli interi animali per l’olocausto, per la pelliccia, per
i sacrifici dai peccati e di colpa; i pani d’esposizione; una percentuale di
ogni pasta che era cotta; un’imposta per ogni rasatura di pecore, ecc. In
breve, i sacerdoti non dovevano soffrire miseria, essi erano ben la casta meglio remunerata nell’intero paese.
6. Solamente che, con tale autorità e ricchezza
non c’era da aspettarsi altro: si era insinuata la corruzione anche nelle file
del sacerdozio, e lo alienò, e del tutto particolarmente le classi altolocate
dello stesso, nei cuori del popolo. Alcune famiglie sacerdotali di Gerusalemme
nel corso del tempo si conquistarono una posizione particolare; esse avevano
usurpato le funzioni più importanti del Tempio e pretendevano la parte maggiore
degli introiti destinati all’intera casta. Mentre loro sguazzavano nella
sovrabbondanza, i sacerdoti che vivevano nelle campagne dovevano accontentarsi
con il minimo. Anzi, poco tempo prima della distruzione di Gerusalemme, le alte
famiglie sacerdotali portavano via per sé la decima con violenza, mettendo al
sicuro la stessa, e facendo assalire di sorpresa i magazzini. Così esisteva una
nobiltà
sacerdotale che non aveva più alcun senso, non avendo più nessuna
comprensione per il sentimento patriottico e per la speranza del Messia del
popolo, e più nessuna compassione della sua miseria e delle sue ferite. Si
amoreggiava per il favore di Erode e dei suoi figli e per quello
dell’imperatore romano e dei suoi governatori, questi erano i sadducei, che nei
Vangeli sono nominati più volte, ma spesso non per motivi differenti; e le
alte, aristocratiche famiglie sacerdotali, si odiavano tra loro e si
combattevano tanto, che – tra i loro seguaci e soldati – si arrivava a lotte
sanguinose per le strade di Gerusalemme. In queste condizioni non si poteva
parlare di ereditarietà del sommo sacerdozio. Al tempo di Gesù c’erano in particolare
quattro famiglie che si contendevano con violenza
questo grado supremo. Negli ultimi cento anni prima della distruzione,
governarono l’uno dopo l’altro 28 sommi sacerdoti.
Erode il grande insediò e di nuovo depose cinque di loro nei 33
anni del suo governo. Alcuni governatori romani procedettero ancor più senza
nessun riguardo. Di uno di loro riferisce Giuseppe Flavio: “L’imperatore Tiberio inviò Valerius Gratus nel paese giudeo,
il quale depose il sommo sacerdote Hanna e ordinò al suo posto Ismael ben Pfabi.
Presto scacciò anche costui e trasferì questa carica a Eleazar,
il figlio di Hanna. Un anno più tardi gliela tolse di nuovo e la diede a
Simone, figlio di Canith. Costui la occupò appena per
un anno, allora dovette cederla a Joseph, detto Caifa.
Poi Gratus andò di nuovo a Roma, dopo essere stato
per undici anni in Giudea. Il suo successore divenne Ponzio
Pilato”.
7. Caifa e
Ponzio Pilato sono nomi a noi noti. Essi contrassegnano la profondissima
ignominia dell’infelice popolo ebreo. Era il tempo in cui Giovanni comparve nel
deserto e al Giordano, per preparare, con la sua predica del pentimento, la via
al giusto sommo Sacerdote e Re, Gesù Cristo, dato da Dio. I più alti ideali
d’Israele, la Sovranità di Dio e il sacerdozio, erano calpestati coi piedi; l’orrore della devastazione stava ai luoghi
sacri. Ma coloro che pensavano e sentivano nello
spirito degli antichi profeti, i ‘silenziosi nel paese’, aspettavano la
liberazione, la consolazione d’Israele.
[indice]
۞
1. Quanto più i vertici del sacerdozio in Gerusalemme si
chiudevano ai pensieri, aspettative e speranze
d’Israele, e quanto più la considerazione del grado dei sommi sacerdoti era
scossa attraverso l’indegnità dei portatori, tanto più costante il popolo si
rivolgeva ai suoi maestri e alle sue sinagoghe. Qui – e non più nel Tempio – al
tempo di Gesù, si trovava il vero e proprio centro di gravità della vita degli ebrei.
2. Il Tempio di Gerusalemme era e rimaneva veramente la casa dell’adorazione di Dio nel
più alto senso della parola, ma accanto, negli ultimi secoli prima della
nascita di Cristo, sorse la scuola o sinagoga come luogo della riunione del Sabato e
dell’insegnamento collettivo. Quest’insegnamento consisteva principalmente nella
lettura e nella discussione della legge mosaica. La Legge di Dio era il grande
argomento di ogni insegnamento presso il popolo ebreo. Per causa sua, già al
tempo di Cristo, furono fondate nelle comunità delle scuole elementari e,
alcuni decenni più tardi, fu intrapreso perfino l’esperimento di rendere
obbligatoria l’istruzione della gioventù: in ogni sinagoga doveva esistere una
scuola per ragazzi; ogni giovane israelita doveva, per studiare la legge,
imparare a leggere, e a questo scopo doveva essere portato a scuola all’età di
sei o sette anni. L’istruzione delle ragazze era invece rigorosamente proibita.
Si diceva: “Chi istruisce sua figlia
nella legge, la istruisce nella stoltezza!”.
L’insegnamento scolastico era anche l’istruzione familiare cui erano obbligati
i genitori. Esso consisteva nella lettura e nell’inculcare la legge e la santa
storia ad essa collegata. – Molto più importante della
scuola per ragazzi era la casa d’insegnamento per gli adulti, che nella nostra
Bibbia tedesca si chiama di solito anche ‘Scuola’, meglio
comunque se viene chiamata ‘sinagoga’ oppure ‘casa delle adunanze’.
3. In ogni città e villaggio, dove
abitavano insieme anche solo alcune centinaia di ebrei, esisteva una o più
sinagoghe. Secondo una leggenda epica ebraica (corrispondente a verità), a
Gerusalemme ne esistevano 480. Esse erano, la maggior
parte, sale semplici e disadorne su colline, in piazze all’aperto o agli angoli
delle strade. Là il Sabato si radunava la comunità (anche il lunedì e il
giovedì, durante i giorni di mercato e di udienza), e precisamente al mattino, quando sull’altare di Gerusalemme bruciava
l’offerta del mattino, e poi di nuovo al pomeriggio, quando lì veniva portata
l’offerta della sera. Ogni sinagoga aveva il suo capo (il
‘superiore della scuola’), il quale però non era né sacerdote né
predicatore, ma doveva provvedere solo all’ordine e a quel che ci voleva
durante e al di fuori del servizio religioso.
4. Il servizio religioso del mattino cominciava
con la professione di fede, professione che era
pronunciata in coro: “Ascolta, Israele, Jehova, il tuo Dio è l’unico Signore, e tu devi amare Jehova, il tuo Dio, con tutto il cuore…”, ecc. Poi si
presentava il ministro ufficiante; costui non era un funzionario fisso, ma un
qualsiasi membro della comunità che era invitato a tale funzione dal dirigente.
Per la preghiera, mentre stava in piedi con la faccia rivolta in direzione di
Gerusalemme, la comunità ripeteva ad alta voce “Amen!”, oppure certe parole
spesso ricorrenti. Alla lunga preghiera seguiva la lettura delle Scritture. I
cinque libri di Mosè – ‘la Legge’ – erano suddivisi a
questo scopo in 154 grandi capitoli (le cosiddette ‘Parasceve’), delle quali,
per ordine, una doveva essere letta ogni Sabato, così che la comunità poteva
ascoltare tutta ‘la Legge’ in tre anni. Se un versetto era letto in ebraico,
era subito tradotto nella lingua aramaica allora dominante, – oppure, al di
fuori della Palestina, in quella greca. In questa lettura della Legge si
alternavano parecchi degli uomini presenti (fino a sette). A questa seguiva la
lettura di un capitolo da ‘I Profeti’ (compresi i libri storici), che poteva
essere scelto liberamente. Alla fine seguiva un edificante discorso, una
predica su quanto letto che era tenuta di nuovo non dal presidente della sinagoga,
ma da un qualsiasi uomo dignitoso e intelligente, meglio di tutti da un
rabbino, oppure da uno scriba. Ogni Israelita dai 30
anni in su, era autorizzato a predicare, come abbiamo individuato dai Vangeli
che ci riferiscono spesso di Gesù che si presentava nelle sinagoghe a
insegnare. La benedizione pronunciata sulla comunità formava il termine del
servizio religioso. Similmente, ma solo in un modo più semplice e libero si
formavano le adunanze pomeridiane. Allora erano discussi i diversi punti di vista
su un versetto delle Scritture. C’erano spesso discussioni animate e ad alta
voce tra i probabili scribi presenti, con la partecipazione della comunità.
Queste dispute duravano spesso fino al buio della sera.
5. Così la sinagoga era la scuola della
legge del popolo ebraico. Qui il credente israelita si guadagnava
una precisa conoscenza della legge dei padri, che per lui era il compendio di
ogni Rivelazione di Dio. Mentre per gli altri popoli si doveva avere dei dotti
in materie giuridiche – si vantava Giuseppe Flavio – nelle case degli ebrei
ogni ancella sapeva dal servizio religioso, ciò che Mosè aveva prescritto nella
Legge per ogni singolo caso.
6. Questo, veramente, non è del tutto esatto. Anche gli ebrei avevano i loro dotti in
materie giuridiche. Essi erano gli scribi, oppure rabbini, i ‘maestri in
Israele’. Essi curavano la scienza della legge, ed
avevano il compito di rendere applicabili le semplici e brevi ordinanze della
legge di Mosè su ogni singolo caso e avvenimento della vita. Questi sono gli uomini
di cui ci viene riferito così spesso nei Vangeli, i
quali portavano sulla fronte e al braccio delle cinture di preghiera, cioè
strisce di pergamena su cui erano scritte parole della Bibbia (‘foglietti di
memoria’), nelle case a tavola e nelle sinagoghe sedevano volentieri ai primi
posti e davano elemosine, pregavano e digiunavano, affinché fossero visti dalla
gente. Il loro procedere era oltremodo dignitoso. In Israele dovevano essere
onorati di più che il padre e la madre. “Se
tuo padre e il tuo rabbi soffrono mancanza, devi dapprima provvedere al tuo
rabbi, e dopo a tuo padre”, – era inculcato al figlio ebreo. La maggior
parte di questi scribi, i quali formavano una casta saldamente chiusa, ma che
non avevano nessun carattere sacerdotale, appartenevano
a un partito che nei Vangeli è di solito stato nominato in stretto collegamento
con loro: i farisei oppure ‘i separati’,
così si chiamavano i più giuridici tra gli ebrei che vivevano più rigorosamente
secondo le prescrizioni dottrinali. Così si guardavano con timore da ogni
contatto con oggetti impuri e si isolavano da tutte le
persone non pure. Ma ciò che era puro e impuro, e come
si diventava puri o impuri, questo, appunto, doveva essere compreso attraverso
un preciso e instancabile studio della Legge. Perciò, per un giovane ebreo era
un alto privilegio essere allievo di uno scriba
farisaico, e ai piedi di un tale maestro si poteva essere introdotti in tutte
le questioni di cui si occupavano i rabbini giorno e notte. – Si ricordi come
Paolo ne parlasse nel suo discorso davanti al popolo raccolto sulla piazza del
Tempio di Gerusalemme, che lui un giorno era stato istruito «…ai piedi
di Gamaliel con tutta diligenza nella legge dei padri»[Atti degli Apostoli 22, 3].
7. Cristo ha parlato duramente contro i
farisei e gli scribi, li ha chiamati ‘ipocriti’ e su loro ha esclamato sette
volte «guai». Anche se tra loro c’erano, senza dubbio, molti
uomini seri e sinceri – pensiamo a Nicodemo, Gamaliel,
Paolo oppure allo scriba al quale il Signore poté assicurare che egli non era
lontano dal Regno di Dio, – la loro casta meritava certamente il rimprovero
d’ipocrisia nel più profondo significato della parola. Essi, infatti, avevano
nutrito e grandemente attirato nel loro popolo, quello spirito della legge
esteriore, poiché ci si accontentava con opere e azioni esteriori e ci si
occupava poco dello stato del cuore, dei sentimenti, della fede, dell’amore,
dell’umiltà e della verità. Perciò Gesù chiamava i giudei del Suo tempo, che
erano rigidi nella legge, ‘sepolcri imbiancati’, poiché esteriormente apparivano belli, ma
interiormente erano pieni di marciume e aridi come le ossa dei morti.
Gli scribi trasformarono i semplici Comandamenti di Dio in migliaia e decine di
migliaia di statuti e, con questo, misero un
insopportabile peso, una montagna schiacciante sui cuori e una spessa coltre
sugli occhi del loro popolo.
8. Alcuni esempi lo possono dimostrare.
Il pensiero fondamentale dei dotti ebrei nelle S. Scritture era il seguente: la
religione è conoscenza e adempimento della Legge divina. Dio dà la ricompensa
per l’adempimento della Legge secondo la grandezza e quantità delle
prestazioni. La ricompensa per il singolo consiste nella felicità terrena o
nell’eterna Vita; per il popolo, invece, nella venuta del Messia. Si voleva
ottenere che il Messia, il Re
promesso e il Suo Regno, fossero costretti a venire giù dal Cielo con le molte
buone opere, con la festa del Sabato, con i digiuni purificatori e con le molte
lunghe preghiere. “Se Israele osservasse
il Sabato completamente anche solo una volta, sarebbe subito liberato”, si
diceva. In altre parole, diventar partecipe dei giorni del Messia[3].
9. Di che genere era dunque l’interpretazione
della Legge, del cui adempimento ci si aspettava qualcosa di così
grande? Prendiamo p.e. il 4° Comandamento: «Ricordati del giorno del Sabato, affinché tu lo santifichi;
nel giorno del Signore non devi fare nessuna opera». Che cosa
significa? I maestri d’Israele enumeravano 39 lavori
che il Sabato dovevano essere proibiti; tra questi, scrivere due lettere,
accendere e spegnere il fuoco, fare o sciogliere un nodo, cucinare, dar da
mangiare al bestiame, mietere, portare pesi, ecc. Ma anche relativamente
a queste ‘opere’ proibite ci sono varie disposizioni e distinzioni
valide tutt’oggi: chi scrive due lettere su carta, è colpevole di trasgressione
della legge; se le scrive nella polvere o sulla sabbia, che il vento soffia
via, allora egli è innocente; se l’una la scrive il mattino, l’altra la sera su
carta, allora, secondo l’opinione di alcuni rabbini, è colpevole, secondo altri
pareri, innocente. – Il raccolto di Sabato è proibito. – Ma
che cosa significa raccogliere? Raccogliere significa già strappare alcune
spighe e mangiarne i grani quando si va attraverso i campi, come lo hanno fatto un giorno i discepoli di Gesù [Marco 2, 23]. – Non si
devono portare pesi il Sabato. Ma che cosa significa
portare pesi? Portare tanto latte dalla piazza che basti per un sorso, portare tanto
cibo quanto ammonta un fico secco – già questo è trasgressione. Era sollevata
la domanda se uno storpio poteva uscire di Sabato con
le sue stampelle di legno, oppure se anche questo fosse un portar peso vietato,
– gli uni rispondevano di sì, altri rispondevano di no! Sorgevano pure delle
lunghe discussioni e controversie scolastiche sulla domanda: “Che cosa si deve fare con l’uovo che una
gallina depone di Sabato?”. Un intero trattato del Talmud ottenne da
quest’importantissima questione controversa il titolo ‘Beza’. – Spegnere il fuoco, anche lo spegnimento di una casa in
fiamme era vietato di Sabato; ma quanto invece si può portar fuori? Si deve
salvare in ogni caso la Sacra Scrittura, delle provviste, un cesto di pane e
una botte di vino, – nient’altro. Ne era dispensata la vita dell’uomo ; il pericolo di morte annullava il Sabato. Nel pericolo di
morte era permessa anche l’assistenza medica, – ma non in altri casi. – Tutto
ciò era sul Sabato. Da questo, riconosciamo che solo ad
una piccola classe particolarmente ben messa della popolazione, era possibile
celebrare il Giorno del Signore secondo la prescrizione farisaica.
10. Ancor più profondamente ingerenti
nella vita quotidiana erano però gli estesi,
innumerevoli ordinamenti sulla purezza e rimozione dell’impurità alle persone e cose
per ogni genere di vasi e utensili, sia piani o cavi, sia di metallo, legno o
argilla. Era stabilito come dovessero essere puliti, affinché l’impurità
attaccata a questi non passasse ai cibi e, da questi, agli uomini. Prima di
ogni pasto dovevano essere lavate le mani per allontanare la contaminazione. Si
sollevava la domanda se questo sarebbe dovuto avvenire con acqua corrente o acqua stagnante e quali recipienti potevano essere impiegati
per questo lavaggio, inoltre, se l’acqua si doveva solo versarla sopra le mani
o immergerle dentro. All’ultima domanda si arrivava a decidere che per i pasti
normali bastava il versare l’acqua sulle mani, mentre prima dei pasti del
sacrificio era necessario immergerle. Del celebre rabbi Akiba,
ci viene riferito che a lui, quando fu catturato dai
romani, l’acqua per l’abluzione fu tolta. Allora il saggio
disse: “Che cosa devo fare? Per l’omissione del lavaggio delle mani si
è colpevoli di morte. È meglio dare a me stesso la morte,
piuttosto che trasgredire la legge!”. E non mangiò più nulla, finché
gli fu nuovamente concessa l’acqua necessaria.
11. Un altro esempio:
nella Legge di Mosè è comandato per motivi a noi sconosciuti: «Non devi cuocere il capretto
nel latte di sua madre» [Deut. 14, 21]. Che cosa concludevano i
rabbini da questa semplice prescrizione?
I ) Affinché tu non corra il rischio di
trasgredirla, non devi mai cuocere insieme, latte e carne.
II ) Non devi
nemmeno mangiare insieme, latte e cibi di carne, affinché nello stomaco non
siano bruciati e digeriti insieme.
III ) Se hai
mangiato formaggio, non devi mangiare nessuna carne per sei ore, finché non
sarà completamente digerito.
IV ) Non devi
nemmeno avere lo stesso recipiente per cuocervi una volta il latte, l’altra
volta la carne, ma per ognuno di questi cibi una pentola specifica.
V ) E alla fine non devi
accettare dai pagani né latte né carne, perché essi ti potrebbero essere stati
consegnati in un recipiente impuro.
12. Questa formalità si estendeva però
non soltanto alla vita esteriore, mangiare, bere e cose simili, essa era
portata anche nel santuario della vita personale con Dio: anche la preghiera le
era sottomessa. Tre volte al giorno – il mattino,
pomeriggio e sera, l’israelita doveva ripetere determinate formule di preghiera,
di cui la più importante (la bella ‘Schmone-esre’
oppure ‘preghiera delle diciotto esaltazioni’) era molto estesa. – Per rendere
la preghiera forte e valida davanti a Dio, si dovevano osservare varie cose. In
primo luogo il
tempo: esso era stabilito, quando doveva essere recitata la
preghiera del mattino e da quale ora in poi non sarebbe stata più valida. Ma anche il luogo: più meritoria della preghiera
casalinga e unica pienamente valida, era quella recitata nella sinagoga.
Per il modo e il come, se non era possibile pregare tutto con raccoglimento,
certamente la prima parte, per il resto bastava la recita. La preghiera poteva
essere espressa a bassa voce, ma quella ad alta voce,
espressa chiaramente, aveva più seguito. Se si sbagliavano delle parole, allora
bisognava cominciare tutto daccapo! Infine la posizione del corpo: chi pregava, doveva
farlo in posizione piegata con il capo profondamente chino; quanto più profondo
era l’inchino, tanto più meritoria era la preghiera. Si teneva anche molto alla
giusta preparazione per la preghiera. Non la si doveva
finire rapidamente come un peso, ma prendersi per questa il tempo e inserire
possibilmente ancora qualcosa nella formula prescritta. “Chi allunga le sue preghiere, non tornerà indietro a vuoto!”, veniva insegnato. Così, dunque, da parte degli uomini, non
mancava nel giusto sentimento l’adorazione che spetta, all’eterno e santo Iddio, Quale Creatore e Signore del mondo e della
nostra vita. Anche i doni del quotidiano pane, cibo e bevanda non dovevano mai
essere gustati senza ringraziamento, senza lodare il Donatore. Soltanto, si
badi bene: anche l’adorazione, la lode, il ringraziamento erano regolati fin
nei minimi particolari, nessuna manifestazione libera del cuore, e ogni
preghiera era un dovere, un dono offerto a Dio, un’incruenta celebrazione del
sacrificio, una prestazione per la cui precisa esecuzione si aspettava la
ricompensa.
13. In quale contrasto stava certamente
tutta quest’adorazione di Dio attraverso l’esteriore servizio di legge! Anche
il servizio di preghiera stava in contrasto con ciò che Gesù aveva espresso un
giorno alla samaritana presso il pozzo di Giacobbe: «Dio è Spirito, e coloro
che Lo adorano, devono adorarLo
in Spirito e Verità!». Da ciò comprendiamo perché il Signore ha parlato con
così terribile asprezza contro i maestri del Suo popolo, e perché il Suo
discepolo, l’apostolo Paolo, che personalmente aveva partecipato e fatto
dall’inizio alla fine tutto questo, mai si è stancato di mettere in guardia la
giovane cristianità contro queste deviazioni di una falsa devozione
immaginaria. «Essi si appassionano per Dio, ma con mancanza di giudizio!»,
diceva ai suoi connazionali, e alle comunità cristiane esclamava: «Voi, cari fratelli, siete comprati a caro prezzo! Non
diventate schiavi degli uomini!». Lui, che era irreprensibile secondo la giustizia della
legge, aveva certamente considerato questa preferenza come danno, anzi, come
‘immondizie’, affinché egli, in luogo di ciò, guadagnasse Cristo, si ritrovasse
in Lui, e conseguisse la giustizia che non proviene dalla legge, ma dalla fede
in Cristo.
14. Questo era
dunque il tempo di Gesù Cristo. Il popolo ebreo era oppresso dai suoi
superiori, senza re nazionali. I suoi sommi sacerdoti non erano più mediatori,
né erano più pastori. I suoi maestri erano guide cieche di altri ciechi. I
silenziosi nel Paese aspettavano la consolazione d’Israele. Lo
riconosciamo chiaramente: Gesù, il Figlio di Davide, non è cresciuto da questo
tempo e dalla generazione dei Suoi giorni, ma è un Dono dall’Alto: “L’Iddio rivelato nella carne!”.
15. Tuttavia il mondo era preparato per
la Sua venuta. Un profondo conoscitore della storia contemporanea del Nuovo
Testamento si espresse così: “Che Egli
nacque in quel momento, è una così chiara intromissione di una Potenza superiore
nelle relazioni terrene, come non ne esiste una seconda”. E sebbene la
grande moltitudine dell’infelice popolo ebreo si fosse chiuso
verso il Pastore divino e non volle ascoltare la Voce del suo migliore Amico e
Soccorritore, possiamo tuttavia attestare con l’evangelista Giovanni: «Egli è venuto nella Sua Proprietà, e i Suoi non Lo hanno
accolto; ma a quanti Lo hanno accolto, a costoro Egli ha dato il potere di
diventare figli di Dio, i quali credono nel Suo Nome», [Giov. 1, 11-12] e
perciò, questi adempiono ciò che Egli ha insegnato di adempiere!
[indice]
[1] Talmud: era
una specie di tessera, una carta d’identità, un cartoncino con inciso il nome,
la regione d’appartenenza, il paese e la professione.
[2] Il colle
originario non è quello attuale dove è collocato il
muro del pianto dell’odierna città di Gerusalemme.
[3] Confronta con
questo, ciò che Paolo pronunciò negli Atti degli Apostoli al cap. 26,6-7,
davanti al re Agrippa.