OLTRE IL LIMITE

 

 

La straordinaria vita

nell’aldilà del soldato John

 

 

ricevuto da

Libia B. Martinengo

 

 

 

 

 

 

Revisione, controllo e messo in ordine a cura del gruppo:

Amici della nuova Luce   -   www.legamedelcielo.it

 

 

 

INDICE

 

parte prima

cap. 1       Una rappresaglia a poveri innocenti vietcong

cap. 2       Il risveglio

cap. 3       Il bonzo

cap. 4       Cambiamenti in vista: due diventano amici

cap. 5       Aiutare si può: la buona idea di John

cap. 6       Davanti alla paredria

cap. 7       L’impegno estremo di John complica l’esistenza di tutti

cap. 8       Il campo insorge su John – Davanti alla paredria

cap. 9       Le figlie dei sogni di Adamo

cap. 10     Tornare indietro, per andare avanti

cap. 11     L’immolazione

 

parte seconda

cap. 12     Il ritorno, trasfigurato

cap. 13     Scuola per gli angeli

cap. 14     Il Cielo degli eroi

cap. 15     Il richiamo di una madre, attira il figlio

cap. 16     John, un potenziale garibaldino?

cap. 17     L’insegnante di “Psicosintesi”

cap. 18     John e i suoi fratelli chiedono spiegazioni, e le ottengono

cap. 19     Un esame di maturità, poi col bonzo

cap. 20     Il terzetto diventa quintetto... ma la musica non cambia

cap. 21     I quac-bac attaccano, ma i cinque in missione, salvano

cap. 22     Verso Plutone

cap. 23     Viaggiando verso Plutone s’investiga la dinamica della luce

cap. 24     Sulla Luna, tra i seleniti

 

parte terza

cap. 25     A scuola su Plutone

cap. 26     Misurati, davanti all’angelo di Plutone

cap. 27     Su Titano, ovvero, dove la vita è tutto un sogno

cap. 28     In attesa del nuovo, si riflette sul presente

cap. 29     Verso il mondo degli asteroidi, su di un disco volante

cap. 30     Nella fascia degli asteroidi, protetti dal disco volante

cap. 31     Nel viaggio verso l’ignoto, argomenti sulla reincarnazione

cap. 32     In un al di là, uno trasmuta nell’aldilà

 

parte quarta

cap. 33     Gli amici restano soli, poi, John-voce li guida ancora

cap. 34     Rinascita

 

 

Personaggi

 

Cathy                     la moglie di Frank, il figlio di Dan

Dan                        Daniele, un caporale americano, di religione metodista

Ernst von Creulz          il maggiore/il nazista/il fratello d’Occidente, di Paderborn

Epicari                    la compagna di Dan nell’Eden

Euferia                    la compagna di Pietrino nell’Eden

Eufrosine                  la compagna di John nell’Eden

Frank                      il figlio di Dan

Giulia                      una vecchina in casa di riposo

Jimmy                     un soldato

John                       un soldato americano, dei marines

Kate                       la figlia del pizzicagnolo

Mary                      moglie di Dan

Mariuccia                 una vecchina in casa di riposo

Marta                     madre di Pietro, il folgorino

Mi-Con-Fù                 un venerabile bonzo

Peradria                   consiglio degli anziani

Pietrino Mori              un caporale della Folgore, di Livorno. Il folgorino

Quac-bac                  l’essenza del male

Sgriqua Quon Lom         uno straniero, re, prete e scienziato di Rakma, distrutta

un pastore metodista     

un sergente dei marines  

un ufficiale in pensione  

 

 

 

La  ricevente

La vita di Libia Bertelli Martinengo è stata ed è tutt’ora un perpetuo dono di conoscenza. Un dono che è tale nella misura in cui ne viene compreso il vero valore. Un dono che esprime e richiede un grande impegno, un dono d’amore e di verità, quella pura e semplice che continua a trasmettersi di bocca in bocca, anche se spesso, gli uomini non sono disposti ad ascoltarla e riconoscerla. Dalla fine della seconda guerra mondiale al duemila, un vasto numero di persone di ogni estrazione, intere generazioni, si sono periodicamente avvicendate intorno a una scuola di pensiero spirituale di natura medianica, la quale ha avuto in Libia la sua più alta e pura espressione.

Anna Bertelli (questo è il suo cognome originario) nasce a Savona nel 1912. Ebbe un'infanzia dolorosissima. Quando aveva due anni perse la madre mentre partoriva un secondo figlio, che morì pure lui durante il parto. Dopo pochi mesi, un attacco di poliomielite la tenne a letto per parecchi anni, dai due anni e mezzo (sino a quell'età era stata una bimba sana, viva e intelligente) ai dieci, e quella terribile malattia le lasciò dei segni tenendola a letto per quasi otto anni semi immobilizzata, anni in cui lei ebbe difficoltà di parola e un bisogno assiduo d’assistenza e di cure. Così la bimba fu curata e allevata da un uomo che le fu sommamente padre. Tutti lo consigliarono di mettere la sua infelice bambina in un ospizio, ma egli rifiutò e allevò questa sua creatura che parlava a stento, insegnandole dapprima a sillabare le lettere e le vocali, e, col passare degli anni, a leggere le parole che lui scriveva su di una lavagna.

Adottata dalla contessa Martinengo, da questa ne assume il cognome con cui rimarrà nota, ma la lunga malattia segnerà la sua psiche spingendola a rifugiarsi nel suo mondo interiore tramite cui svilupperà doti di sensitiva che più tardi sbocceranno in una serie di opere letterarie ‘subliminali’ che attireranno l’attenzione di scrittori e intellettuali.

Nella città di Torino, Libia stabilisce un rapporto con il Maestro, un’entità che le detterà molti dei suoi libri e i cui insegnamenti saranno trasmessi a una cerchia di amici man mano sempre più vasta, tramite conferenze proseguite per quasi cinquant’anni. Libia animerà anche l’associazione Pitagorica e il Cenobio (negli anni 1970), affiancando ai suoi interessi culturali un impegno politico di orientamento monarchico. L’impegno più duraturo rimarrà comunque ‘l’Idea Spiritualista’, un’associazione nata a Torino alla fine degli anni quaranta per lo studio e la diffusione dei messaggi del Maestro.

L’associazione Idea Spiritualista, si pone l’intento di realizzare un “razionale e sistematico studio delle umane intuizioni e delle divine rivelazioni”. Negli anni novanta nasce a Milano il gruppo Goccia di Luce. Il Maestro insegna che tutte le religioni devono essere rispettate (indipendentemente dal credo di ciascuno): ogni religione è un mezzo per raggiungere lo Spirito. Dopo la morte di Libia Martinengo, avvenuta il 18 maggio del 2000, Goccia di Luce ha proseguito la sua attività ponendosi come scopo l’approfondimento dei temi che negli anni erano stati affrontati dal Maestro attraverso Libia e di cui esiste una ricca documentazione (oltre 1800 titoli) nell’orizzonte del pensiero etico, teologico e filosofico occidentale.

Personalità affascinante e discreta, frequentata da artisti, intellettuali e politici di altissimo livello, Libia Martinengo rappresenta uno dei più profondi e inesplicabili misteri del nostro tempo. Uomini di grande fama e spessore hanno frequentato il suo salotto ed hanno lasciato meravigliati e lusinghieri giudizi sulla sua attività di medium e scrittrice medianica e sul valore dei messaggi espressi attraverso la sua persona.

Tra gli altri, citiamo la testimonianza del noto scrittore Pitigrilli, al secolo, Dino Segré, a proposito dell’influenza che ebbe su di lui e sulle sue convinzioni l’incontro con la Martinengo: «Dopo aver letto vari libri sulla morte e su quell’aldilà che è la continuazione senza urti dell’aldiquà, il caso (ma sarà davvero il caso?) mi ha fatto incontrare l’autrice di questo libro che ebbe tanta influenza su di me, modificando le mie convinzioni sul destino dell’anima, sul soprannaturale e su Dio. Come ho raccontato in alcuni miei libri, l’autrice del presente libro, quarant’anni fa ha mi ha messo in comunicazione medianica con amici, conoscenti e sconosciuti trapassati, i quali (parlandomi di cose che conoscevo e di cose che ignoravo, ma della cui autenticità ebbi prove documentate) mi diedero la certezza che la morte non esiste, che, morendo, conserviamo la nostra personalità terrena, la nostra formazione mentale, il bagaglio culturale e linguistico che avevamo racimolato nella nostra esistenza».[…]

E ancora, Pitigrilli si esprime sul valore letterario dell’opera della Martinengo: pagine dettate attraverso lo Spirito alla medium, le quali rivelano un alto livello qualitativo, oltre a un contenuto pregnante, capace di aprire nuove prospettive, sia sul mondo terreno che su quello ultra terreno: «Posso esprimere la mia opinione su questo romanzo di Libia B. Martinengo – scrive Pitigrilli – sottolineandone una caratteristica che non lascia dubbi, e tanto meno interpretazioni contrarie. Questo libro (come il precedente “Giovanni l’annunciatore” dovuto alla stessa mano) rivela che l’autore è del mestiere. Si sente la potenza di chi sa davvero scrivere un libro, “un grande libro”, cioè il libro di un artiere che conosce l’architettura del romanzo e i segreti della sua lavorazione, cioè: preparazione, sviluppi, conclusione, con tutti i fili sparsi che si radunano e si ricollegano con le idee che emergono dagli avvenimenti. Questo racconto non è il frutto di vaneggiamenti onirici o di divagazione di una febbricitante, bensì è l’opera quadrata, solida, incrollabile, senza incrinature, di un personaggio che sa esprimersi».

Il filosofo Gianluigi Marianini, invece, evidenzia la profondità del messaggio religioso contenuto nell’opera della Martinengo: «Se tuttavia, un’osservazione bisogna fare, potrei dire che, nel travaglio di unificazione e di unità che agita oggi felicemente la Chiesa e le Chiese, quest’opera rappresenta la chiave di un tesoro comune di preghiera, fruibile non solo da cattolici, luterani, anglicani, evangelici e ortodossi, ma anche da musulmani, buddisti, induisti, scintoisti, e da tutti coloro che, in qualunque modo, credono che qualcosa vi sia oltre le stelle. Compresi, naturalmente, quelli che chiamo affettuosamente i “cani sciolti” del buon Dio, cioè teosofi, antroposofi, spiritisti, nonché gli appartenenti ad antiche e rispettabili Società Esoteriche. […] Certo, comunque, la Provvidenza non si avvale soltanto del Catechismo Tridentino. Molte e assai diverse sono le vie che portano al bene e, in modo particolare, nel ricco tempo ecumenico che stiamo vivendo. «Lo Spirito», come dice la Scrittura, «soffia dove vuole».

Alla penna di Ettore Paniè sono affidati i ‘consigli di lettura’ su come avvicinarsi all’opera della Martinengo, lasciando pregiudizi di qualsiasi natura e approcciandosi con animo e cuore aperti per ricevere la verità: «Voglia credere il lettore che il caso non esiste, e che questo libro è da leggere. Lo si legga dunque con attenzione, con distensione, senza preconcetti passionali o teologici, badando molto più allo spirito dell’insegnamento, che non alla lettera, e forse, avrà più luce e giovamento di quanto si possa sperare».

 

 

Breve riassunto del contenuto

Ucciso in un’imboscata durante la guerra del Vietnam, il soldato John, volontario di belle speranze e alti ideali umanitari, si ‘risveglia’ in preda al più grande sconcerto.

Al pari dei suoi compagni di spedizione, gli sembra di essere precipitato in un’altra dimensione, perso in una nebbia così fitta da aver cambiato non solo il paesaggio intorno, ma il tempo stesso della loro esistenza, è forse ancora vivo? Tutto sembra come prima, eppure, mille interrogativi e un’angoscia mai provata assillano la sua coscienza.

Presto il ‘centro di raccolta e di ricondizionamento dei caduti’ dove viene portato, chiarirà la sua condizione. Inizia così la nuova ‘esistenza’ del soldato John, tra missioni su Plutone e Titano, incontri sorprendenti e scoperte dolorose e illuminanti sul significato della vita umana e sulla morte, prima del viaggio definitivo verso l’Ignoto, “al di là dell’aldilà”.

Come ebbe a scrivere Pitigrilli in occasione dell’uscita del libro: «Quando il lettore entra nello spirito del racconto si trova a suo agio tra le linee geometriche e i chiaroscuri, tra le luci e le penombre. Coloro che ne sanno più di me analizzino il fenomeno e me lo spieghino. Io non so spiegarlo altrimenti che come un autentico colloquio con l’aldilà».

 

 

 

Al maestro Thearcos e all’Associazione Pitagorica

che è stata la più pura manifestazione

in questi ultimi quarant’anni,

do'… dono…  dedico!”

- Libia -

 

 

PREFAZIONE

Queste mie brevi pagine non sono né una recensione, né una critica letteraria. Sono una testimonianza. Giuro di dire la verità, nient’altro che la verità, sapendo di avere come avversari tutti coloro che, incapaci di osservare, analizzare e interpretare un fenomeno, si adagiano nella loro pigrizia mentale e, nella paura dell’inconoscibile, presentano la tranquilla formula:

«IO NON CREDO!»

Dopo aver letto vari libri sulla morte e su quell’aldilà che è la continuazione senza urti dell’aldiquà, il caso (ma sarà davvero il caso?) mi ha fatto incontrare l’autrice di questo libro che ebbe tanta influenza su di me, modificando le mie convinzioni sul destino dell’anima, sul soprannaturale e su DIO.

Come ho raccontato in alcuni miei libri, l’autrice del presente libro, quarant’anni fa mi ha messo in comunicazione medianica con amici, conoscenti e sconosciuti trapassati che (parlandomi di cose che conoscevo e di cose che ignoravo, ma della cui autenticità diedero la prova e la documentazione) mi diedero la certezza che la morte non esiste, che morendo conserviamo la nostra personalità terrena, la nostra formazione mentale, il bagaglio culturale e linguistico che avevamo racimolato nella nostra esistenza.

DA MORTI SAREMO COME FUMMO DA VIVI.

Dell’autrice di questo libro ho parlato nel mio saggio «Gusto per il mistero» (Sonzogno Editrice - Milano) facendo la relazione scrupolosa e obiettiva dei colloqui medianici che furono il compendio e la sorgente delle sconcertanti rivelazioni.

Posso esprimere la mia opinione su questo romanzo di Libia B. Martinengo sottolineandone una caratteristica che non lascia dubbi e tanto meno interpretazioni contrarie. Questo libro (come il precedente «GIOVANNI L’ANNUNCIATORE» dovuto alla stessa mano) rivela che l’autore è del mestiere. Si sente la potenza di chi sa davvero scrivere un libro, un «gran libro» cioè il libro di un autore che conosce l’architettura del romanzo e i segreti di lavorazione, cioè: preparazione, sviluppi, conclusione, con tutti i fili sparsi che si radunano e si ricollegano con le idee che emergono dagli avvenimenti.

Questo racconto non è il frutto di vaneggiamenti onirici o di divagazioni di un febbricitante, bensì è l’opera quadrata, solida, incrollabile, senza incrinature di un personaggio che sa scrivere.

Non saprei mettere il nome di un autore su questo romanzo; potrebbe essere Fogazzaro, Barrili o Guido Gozzano; metto alla rinfusa dei nomi, nomi di «spiriti» dei quali la straordinaria medium (che mi ha consegnato le sette chiavi del mistero) mi ha fatto sentire la voce o leggere la parola per le vie dell’invisibile. Leggendo questo libro ci si rende conto che non è scritto da un dilettante, da un arruffone, da un incompetente, da una signorinella che improvvisa, c’è in esso la potenza, la maturità, l’abilità consumata di un tecnico del romanzo che non scrive come colui che scrive per la prima volta.

Se non fosse irriverente, direi che è scritto da un artista al corrente di tutti i segreti, che è scritto o dettato da un romanziere al corrente di tutte le malizie del mestiere: colpi di scena, «suspense», battute di dialogo martellante.

Ci si domanderà: «ma chi è l’autore?» E ci si deve rispondere: «Non lo so!». Non lo so, ma certamente è ciò che si dice, ma è Quel «QUALCUNO» con la grande iniziale maiuscola.

Ci sono piccoli difetti e trascurabili errori, essi sono dovuti alla trascrizione e si è avuta l’onestà di non correggere, di lasciarlo nella sua emozionante integrità, perché, in questi generi di esperimenti si debbono evitare le interferenze del medium allo stato di veglia.

Guai se nel «dettato» di uno «spirito» mette le mani il medium o peggio ancora un estraneo, un correttore, uno stilista.

Se questo libro fosse una successione di vicende e di stati d’animo o di sensazioni, l’opera sarebbe irrilevante, o quasi, come tanti libri di riflessioni a sfondo letteraria, ma qui ci troviamo di fronte a personaggi stereoscopicamente disegnati che si muovono secondo una loro logica e coerenza.

C’è l’architettura del romanzo giallo pieno di «happening» e del romanzo psicologico vecchio stile.

Qui non ci sono scarabocchi inconcludenti, né ricerche dell’effetto, né ghirigori psicologici o patologici, né arabeschi bizzarri.

Quando il lettore è entrato nello spirito del racconto si trova a suo agio tra le linee geometriche e i chiaro scuri, tra luci e penombre.

Coloro che ne sanno più di me analizzino il fenomeno e me lo spieghino. Io non so spiegarlo altrimenti che come un autentico dialogo con l’aldilà. Comunque, consiglio a chi legge, di vedere (parafrasando Dante) la dottrina che si nasconde sotto il velame degli «accadimenti» strani.

 

PITIGRILLI

 

 

 

 

 

PARTE PRIMA

 

 

 

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Cap. 1

Una rappresaglia a poveri innocenti vietcong

Poggi Mara 3 luglio 1974

La giungla fumava per l’infernale umido calore che la velava di una nebbiolina soffocante, nell’intrigo della vegetazione il meriggio metteva bagliori di sangue sui tronchi e le liane.

Nella boscaglia, aprendosi a fatica un passaggio, avanzava un gruppetto di soldati con i sensi tesi fino all’esasperazione e, al contempo, come sotto un’anestesia.

Non erano più di un commando[1], forse una dozzina di uomini: le tute mimetiche fradice di sudore, sporche di sangue; quasi tutti giovanissimi, tradivano un’eccitazione nervosa malamente contenuta; un sergente li guidava, aveva il volto segnato da rughe profonde, grigio di capelli, che però, nel corpo scattante e asciutto, faceva capire che le rughe nel volto e il grigio della capigliatura non erano opera degli anni.

Nel gruppetto la tensione emotiva era intensa; quei soldati erano reduci dalla più tragica esperienza che possa incontrare un soldato: la rappresaglia, rappresaglia contro civili indifesi. Il sergente diede l’alt; erano giunti a uno slargo della foresta e tutti erano sfiniti.

Il silenzio pesante fu bruscamente interrotto da un gesto d’ira del sergente che, strappatosi la bustina dal capo, la gettò a terra con un’imprecazione. «Che sporco affare è la guerra! E quanto più sporco quello che abbiamo fatto. Puàh[2] che schifo! ... Che schifo!»

«Ma sergente», s’intromise un soldato, «perché te la prendi tanto? In fin dei conti abbiamo solo eseguito degli ordini ...»

«Begli ordini!», sbraitò l’interpellato. «Belli quegli ordini: massacrare donne e bambini, distruggere campi e case. ... Che vergogna

«Sergente», intervenne il soldato John, «ma non ricordate perché lo abbiamo fatto? Perché è stata ordinata questa rappresaglia? Non ricordate Edward e Tom in che stato 1i abbiamo trovati nella foresta? Alla vista di quanto queste maledette scimmie gialle hanno fatto loro, eravate più rabbioso di noi. E adesso, perché tutto questo? Abbiamo fatto giustizia, sergente! Ed io sono fiero di averla fatta!»

«Che giustizia! Che giustizia! No, ragazzo, no! Quella non era giustizia! Cosa centrava quella povera gente, quelle donne, quei bambini? Io mi vergogno d’indossare una divisa che adonesta[3] simili cose!»

«Sergente», intervenne un altro, «parliamo di quei cari bambini che vengono a mendicare alle cucine e portano nei nostri accampamenti mine tascabili! Le donne, poi... carine, davvero carine! ... Puttane dannate che allettano in tutti i modi i nostri ragazzi per trascinarli nelle imboscate e consegnarli vivi alle scimmie gialle.., e dopo, costui, non è più un uomo!»

«Jimmy!», rispose il sergente. «Tu traspiri più odio che sudore; ti ripeto che quella povera gente era gente pacifica; non erano vietcong, non nascondevano partigiani, non esercitavano lo spionaggio contro di noi. ... E poi, se anche ciò fosse stato... Questa è la loro terra, sono in casa loro, hanno il diritto di governarsi come meglio credono. Noi siamo stranieri, siamo invasori. Che ci facciamo qui? Perché siamo qui? Cosa difendiamo? In nome di che, di chi, incendiamo e massacriamo? Quanto avviene, è sporco! Quanto facciamo, è schifoso!» Ora il sergente urlava sfogando la tensione emotiva che gli bloccava il respiro.

Il soldato John scarlatto d’indignazione s’intromise con forza: «Ma sergente! Siete comunista per caso? Voi parlate come un disfattista, voi insultate l’esercito americano!»

Il soldato John era un ragazzino appena diciannovenne. Era partito volontario, la testa imbottita di slogan patriottici e propagandistici, egli amava la vita militare, la guerra, la divisa, le fanfare. La sua vanità giovanile ne era lusingata, si sentiva importante, ed era gonfio di virtuosa indignazione patriottica di fronte ai discorsi e all’atteggiamento di un sergente dell’esercito degli Stati Uniti. Ora rimuginava tra sé e sé l’inqualificabile atteggiamento, chiedendosi seriamente se non era suo stretto dovere fare rapporto contro il suo sergente.

Va bene che io non sono uno spione e non mi piace denunziare un camerata, ma costui, più di un disfattista, è un sabotatore vero e proprio! Come si fa a fare una guerra con simili uomini? Anche lui ha certamente visto Edward e Tom, ed era furioso più di tutti noi. Adesso piagnucola perché abbiamo fatto fuori un buon numero di scimmie gialle, come se le scimmie gialle fossero uomini come gli altri, come gli esseri civili; c’erano dei bambini? E non si uccidono i lupetti con il lupo? Finita la bestia, finito il veleno. Santo cielo! Come la fa lunga! Una rappresaglia è una rappresaglia, ecco tutto. ... In fin dei conti, una guerra non è mica una scampagnata...’.

Sì, la guerra non era una scampagnata e, senza volerlo ammettere neppure con se stesso, il soldatino John se ne rendeva conto.

Rendersene conto, per lui era cosa troppo disgustosa, era il risveglio amaro da uno splendido sogno, il sogno per cui era partito volontario. Per il soldato John la scelta della vita militare era stata molto importante. Egli era irlandese di terza generazione, figlio di povera gente, penultimo di una numerosa famiglia. Per lui indossare la divisa significava diventare qualcuno, uscire dall’anonimato, qualcuno di cui tutta la famiglia un po’ si pavoneggiava. Ricordava quel giorno in cui era partito per il campo base, ma più ancora quello in cui, ebbro di propaganda, di fanfare e di discorsi patriottici, era partito per il Vietnam; i genitori, i vicini di casa, i fratelli e le sorelle erano tutti fuori ad ammirarlo, persino l’orgogliosa Kate, la figlia del pizzicagnolo[4] all’angolo, si era lasciata rubare un bacio.

Il Vietnam per John era stata una prova entusiasmante, checché ne pensasse, checché ne dicesse quello strambo sospetto sergente. Il naturale modo di essere di John era coraggio e violenza; il sangue della gente irlandese tumultuava in lui con la potenza di un’onda oceanica, egli amava la lotta. Questa natura, sotto le armi, si era come ampliata; egli era l’esercito degli Stati Uniti. In lui il respiro della stirpe si allargava e diveniva apprensione. Rampollo di gente costantemente oppressa, non si accorgeva che, diventando a sua volta oppressore, rinnegava i principi stessi della verde Irlanda originaria, dove uomini della sua specie lottavano proprio per quegli ideali che dilaniavano le gialle persone vietnamite. Le rappresaglie contro i civili non lo esaltavano affatto, anzi, a dire il vero, lo disgustavano assai. Che gusto c’era a sparare in un mucchio di civili terrorizzati?

Sette morti di paura prima che le pallottole... Meglio, molto meglio il corpo a corpo, dove ogni muscolo, ogni nervo, si erge contro il nervo e il muscolo dell’avversario, si sente la propria e l’altrui forza, si vince piegando l’altrui resistenza, sentendola cedere a poco a poco, quasi in un amplesso sessuale, sopraffacendo, spezzando, annichilendo, tramite il dolore, nell’altro la resistenza, la forza, la vita! Quello era il bello.

Ma non sempre si può avere solo quello che piace; una buona rappresaglia, di quando in quando, non guastava, teneva allenati. Chissà perché quell’assurdo sergente si faceva prendere dagli scrupoli. E poi, per cosa? Per un branco di scimmie gialle, una teppa[5] di comunisti di vietcong? Ah, sì! Decisamente era suo dovere fare rapporto, suo dovere riferire gli strani discorsi del sergente; non si poteva fare del disfattismo, peggio del sabotaggio contro il glorioso esercito degli Stati Uniti.

Mentre tra sé si dibatteva così, echeggiò un urlo: «Attenti! Un’imboscata!»

Prima che fosse possibile estrarre un’arma, organizzare una difesa, il gruppo si trovò circondato. Da tre lati si scatenò l’inferno di un intenso conflitto a fuoco. Il primo a cadere con la testa spaccata fu proprio il sergente dai capelli grigi; altri caddero falciati uno dietro l’altro; John, con due o tre compagni, tentarono di retrocedere, né il tragico retrocedere fu impedito. Anzi, con misurata pressione i superstiti furono respinti sempre più indietro, sempre più indietro verso il villaggio in fiamme, il villaggio della rappresaglia; ed ecco, di colpo, alle spalle, lo strepitio delle fiamme; sulla piazza il triste mucchio dei civili uccisi e, dal fumo, si vide emergere una visione infernale, volti ghignanti di partigiani vietcong... Poi, John e i suoi compagni non videro e non sentirono più nulla. I loro corpi furono spinti tra le fiamme: le vittime della rappresaglia erano vendicate.

 

[indice]

 

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Cap. 2

Il risveglio

Dopo l’imboscata, il soldato John riacquistò conoscenza, era stordito, tutto il corpo gli doleva; gemendo, cercò di levarsi in piedi e vi riuscì, ma subito barcollò preso da vertigine. Poco distante da lui, pure il sergente si stava riprendendo; cercando di vincere una tremenda nausea, John si guardò intorno. Con stupore notò la strana nitidezza di quanto si offriva ai suoi occhi. Si accorse di essere in un villaggio vietnamita, un villaggio che credeva vagamente di riconoscere, ma che sembrava addobbato per qualche festa locale.

Anche il sergente si era levato in piedi e si stropicciava la testa non più grigia, ma bianca, di un bianco immacolato; intorno ai due soldati si svolgeva una vita serena e ordinata: tutto era pulito, spazzato, lavato e ornato di fiori; nelle stradine di terra battuta i bambini giocavano strillando di gioia; donne con fresche vesti attendevano cantando a semplici faccende. Sulle soglie di capanne pulitissime, sostavano vecchi dall’aspetto venerabile che fumavano le pipe di giada. Tutto era festante, eppure, l’ordinato movimento testimoniava di un giorno qualunque. Da una stradina sbucò abbaiando un cane giallo, inseguito a fatica da un bamberottolo[6] di due o tre anni, che pareva divertirsi moltissimo; da una capanna uscì una gatta, magra, ma di pelo lucido, seguita da due gattini. Cane e gatta si trovarono muso a muso ma, quali ottimi amici e conviventi si annusarono leccandosi e andando ognuno per i fatti suoi. Ora il bambino aveva finalmente raggiunto il cane che lo seguiva scodinzolando. Tutto ciò fu colto dal soldato John in un tempo più breve di quanto descritto.

«?», rispose il sergente.

«State bene?»

«Sì, e tu

«Anch’io! ... Ma cos’è successo? Dove siamo? Dove sono i camerati?»

«Ragazzo mio, ne so quanto te. Ma lasciami raccapezzare... Non c’è stata un’imboscata

«Sì, e ci siamo rifugiati nel villaggio distrutto...».

«Ma questo è il villaggio distrutto

«Ma no!»

«Insomma, o abbiamo sognato di distruggere questo villaggio, o stiamo sognando adesso! Che ne è stato degli altri

«Sergente!», urlò John, «guardate!»

La scena idilliaca era assurdamente cambiata, e il cambio era orrendo. Le strade non più ornate di fiori erano piene di una folla terrorizzata che fuggiva in cerca di salvezza, incalzata da un gruppo di uomini in divisa mimetica, con sulle facce un’espressione satanica; essi scagliavano granate che esplodevano incendiando le povere capanne di stoppie; un bambino che stringeva tra le braccia un cagnolino giallo, centrato in pieno, esplose in brandelli insieme al cane; da una capanna in fiamme, pazza di terrore, uscì una gatta seguita da due gattini; tutti si afflosciarono soffocati. Donne con bambini tra le braccia, vecchi che tentavano di fare scudo a ragazzini, venivano, con le baionette ai reni, spinti come animali verso la piazzetta del villaggio circondata da capanne in fiamme; tra urla inumane e imprecazioni.

I soldati si disposero come per il tiro al bersaglio... Il massacro ebbe inizio. John vide se stesso e i suoi compagni puntare le armi e sparare sul misero gruppo di creature umane, pazze di terrore; in un gioco assurdo e crudele, ognuno si sceglieva un bersaglio, sfogando nella rossa furia l’innato sadismo; ognuno vedeva attraverso le dimensioni dell’odio e della foia[7], vendicando sugli infelici ogni propria remota frustrazione. Qualcuno centrava accuratamente le donne al basso ventre, ghignando soddisfatto all’inarcarsi della vittima, vi era chi preferiva colpire le testoline dei bimbi in braccio alle madri, colpendo dopo la medesima; taluno, puntava alle gambe dei vecchi per vederli annaspanti nel sangue e finirli a bell’agio.

John con orrore vide se stesso sparare e ghignare. Accanto a lui anche il sergente sparava piangendo, ma con fredda precisione mirava tra i due occhi delle vittime offrendo la misericordia di una rapida morte. Bagnato di limpide lacrime, il volto del sergente era come un blocco di pietra...

Sangue e fumo... Poi, inatteso, un’innaturale silenzio.

«No», gemette John «non è vero! Non può essere vero! È un sogno, un incubo! ... Noi non abbiamo potuto far questo, non l’abbiamo fatto! Mi devo svegliare. Sergente! … Aiuto!»

Lentamente, come in un film al rallentatore, la scena cambiò; ancora il villaggio ridente ornato di fiori, le placide occupazioni, i canti dolci delle donne, i vecchi sereni e severi, fumanti in pipe di giada. Bimbi e cani allegramente ruzzanti[8] per le stradine fresche e pulite, una bellezza pacata e serena, un’umile felicità fatta di umili cose...

John vide se stesso e i suoi compagni aggirarsi per il villaggio senza che la gente mostrasse il minimo interesse, quasi fossero fatti d’aria; la loro presenza non esisteva. Poi la scena cambiò ancora, fu l’orrore, il sangue, la bestiale furia, ancora le urla, gli spari, il fumo... e di nuovo il villaggio sereno, in un altalenante pauroso di immagini contrapposte. John sentì la pazzia avviluppargli il cervello. Si strinse la testa tra le mani tappandosi gli orecchi, chiudendo gli occhi, ma vedeva, sentiva, partecipava suo malgrado come se le funeste visioni scorressero ormai in lui con il sangue, bruciandogli il cervello. Con un rantolo cadde con il volto a terra e sentì sulle guancie e sulle labbra il fango impastato di sangue, un fango liquido, caldo che gli entrava nelle narici, gli scorreva in gola... Poi una grande tenebra cadde su di lui; non vide e non udì più nulla, non conobbe altro che uno sprofondare in un abisso ovattato dove la coscienza si spense in un ultimo guizzo di disperazione.

Poi, lentamente e faticosamente, John uscì dall’incoscienza. La prima sensazione che impressionò i suoi sensi fu quella di una nebbia grigia e fredda che avvolgeva tutto, impedendogli di vedere alcunché, unitamente a un silenzio innaturale che pareva pieno di fremiti, ma che la nebbia che lo avvolgeva non permetteva di veder nulla a due palmi di distanza. Fisicamente si sentiva indenne, le membra erano sciolte e docili, non aveva l’impressione di essere ferito. Mosse qualche passo, ma si fermò di colpo con un fremito di paura: non vedeva nulla nella nebbia, perfino i suoi piedi sparivano. Rimase fermo con il cuore oppresso, un gelido sudore alle radici dei capelli; dov’era? Con chi era? E soprattutto: quanto tempo era passato? Non aveva alcuna idea del tempo né del luogo. Aveva solo paura, la paura animale del bruto caduto in trappola. Cercò in fondo alla gola un filo di voce che non riconobbe per sua, tanto suonò stridula.

«Ehi, qualcuno? C’è qualcuno?»

Nessuna risposta, non un eco. ... Le memorie tornavano, terrorizzandolo, e con le memorie degli orrori, la supposizione di orrori ancor peggiori. Ricordava la rappresaglia, l’imboscata; sentì i capelli drizzarglisi in testa... Era vivo, ma era caduto vivo nelle mani dei vietcong... E adesso? Cosa sarebbe successo? Cosa gli avrebbero fatto? Ricordava con raccapriccio molte storie di prigionieri liberati quando ormai erano diventati oggetti di terrore e di sgomento; chissà che avrebbero fatto a lui e al sergente, che certamente era anche lui prigioniero. John avrebbe urlato, ma l’agghiacciante terrore lo rendeva muto e immobile, simile a un pezzo di ghiaccio.

Intanto la nebbia, prigione immateriale, lo costringeva peggio di solidi muri. Egli non osava fare un passo, incerto dell’abisso che si sarebbe potuto spalancare sotto i suoi piedi, mandandolo magari a infilarsi su di un bambù acuminato dove avrebbe lungamente agonizzato come un cinghiale. Il sudore diaccio[9] che scorreva sulla sua fronte gli riempiva gli occhi facendoli bruciare e gli aumentava la cecità della nebbia. Cauto, alzò una mano per strofinarsi gli occhi, e si accorse di poterlo fare con facilità e, andando oltre, presso la fronte, scoprì di avere ancora la bustina in capo. Con un lungo soffio lasciò uscire il respiro che bruciava nei polmoni contratti; strano, non lo avevano spogliato. Misurando i movimenti, cautamente si esplorò la persona, aveva ancora la divisa, gli avevano lasciato le armi. La stranezza della cosa fu tale, che di colpo divenne lucido. Non era prigioniero dei vietcong, era smarrito nella foresta, la nebbia era una cosa naturale che si sarebbe dissipata; tutto era ancora possibile.

Un sospiro di sollievo sfuggì quasi inavvertitamente dalle sue labbra. Certo la situazione non era la migliore, ma, con un po’ di fortuna, la nebbia alla fine si sarebbe sollevata e avrebbe potuto vedere dov’era e cosa fosse possibile fare. Ma come mai era solo? Dov’era finito il sergente che lui ricordava di aver visto ben vivo al suo fianco? Il pensiero del sergente lo ricollegò con le scene della rappresaglia, ricordò come il sergente l’avesse deprecata e, tutto sommato, adesso anche lui non si sentiva più tanto fiero. Rimuginando i suoi pensieri, finì con il concludere che sì, la guerra era proprio uno sporco affare... Ma perché poi era finito in guerra? Già, la storia dell’eroe volontario, l’infatuazione della divisa. Ma perché, poi, si era tanto infatuato?

Pian piano, quasi inconsciamente, John si ritrovò a ricapitolare i fatti salienti della sua pur breve esistenza... La casa meschina, la famiglia povera, il padre troppo amico delle belle bevute e delle belle cantate, la madre indaffarata, incinta o allattante, troppi fratelli, troppe sorelle, troppi pannolini in aria, troppi lettini, e soprattutto, troppo poco spazio; scale che sapevano di gatto, vicoli che sapevano di vizio. Si rivedeva ragazzo cresciuto in fretta, in fretta disincantato, rivedeva le ragazze equivoche, e i compagni loschi. Poi l’incontro con l’ingaggiatore, la grande tirata propagandistica, le promesse di gloria.., e, perché no, di quattrini, buona paga, buon vitto, una bella divisa in cui pavoneggiarsi, l’onore di servire la patria, la civiltà, lui, il povero ragazzo di strada... Ricordava, o come ricordava, l’entusiasmo che gli si era acceso dentro, la vestizione, la dura vita di caserma, simile a un’iniziazione religiosa (che tale era stata per lui), il misticismo della guerra, dell’avventura eroica mediante la quale lui sarebbe finalmente stato qualcuno.

Tornare nel povero quartiere con la bustina sulle ventitré, tutto acconciato nella divisa nuova, con quel S.V. sul colletto, soldato volontario. Sì, quella era stata la sua grande giornata, e poi la cerimonia del giuramento, le fanfare, i discorsi, il colonnello che stringeva la mano con un virile «buona fortuna ragazzi», e il decollo.., il lungo volo tra i canti... E poi? ... Poi la discesa all’inferno, ...nella giungla insidiosa, nella guerra senza quartiere... E adesso? Adesso eccolo lì che non sapeva dov’era, né cosa dovesse fare, perduto in un mare di nebbia e, forse, d’insidie mortali. Più il tempo passava, più in John aumentava l’angoscia, la nebbia persisteva, e il non vedere, il non sentire, era per John un supplizio aggiunto agli altri. E quanto tempo era passato? Un secolo, o pochi minuti?

«Avessi un bastone…», pensò, «…potrei tastare il terreno, potrei avviarmi da qualche parte. Ma così è impossibile, questa nebbia non si leverà dunque mai?»

Come uccelli stanchi, altri pensieri affluivano in lui, ora vedeva il volto soave e raggrinzito della vecchissima nonna, morta quand’egli era ancora piccolo; la nonna che lo segnava sulla fronte con la croce e lo portava in chiesa; stranamente ricordava la sua prima e ultima comunione nella quale tutta la famiglia si era riunita festosa e che si era conclusa con una sbornia colossale del capo famiglia e di tutto il clan maschile.

«Già», rimuginava tra sé, «dopo non sono più entrato in una chiesa, ma se la scampo, è garantito che in chiesa ci torno; ci torno sicuro, mi confesserò e farò anche la comunione. Ah, nonnina, aiutami tu. Fa ch’io mi salvi, e ti prometto che muterò costumi!»

Ora la nebbia sembrava meno densa; un pallido bagliore come di Sole invernale filtrava, e tuttavia, continuava a non veder nulla. Sì, era un po’ meno nero, ma quanto al raccapezzarsi, niente da fare. Mosse un passo avanti alla cieca; ma per andar dove? Il cuore era oppresso dalla disperazione. Mai John era stato così solo con se stesso, scoprendo che la sua compagnia non gli era affatto gradita. Anche il sopraggiungere di un nemico, in quel momento sarebbe stato un meraviglioso sollievo. Forse perse conoscenza o si assopì, non lo seppe mai.

Di colpo si ritrovò sveglio, sveglissimo; la nebbia era svanita, innanzi a lui un arcigno sott’ufficiale in divisa mimetica lo guardava con aria disgustata. Lo sguardo di John abbracciò uno squallido panorama emerso dalla nebbia di cui conservava il colore; una landa ignuda, desolata, con all’orizzonte una fila di tristi grigi baraccamenti.

«Dove sono? Chi siete?», chiese il soldato John.

«Silenzio, soldato! Qui le domande le faccio io!». Si sentì rispondere acidamente. «Tu, piuttosto, chi sei

Sbalordito, John disse chi era, di quale distaccamento facesse parte, ma non poté impedirsi di chiedere ancora: «Ma dove mi trovo?»

Il sott’ufficiale arcigno rise senza allegria. «Dove diavolo vuoi trovarti? In un centro di raccolta e di ricondizionamento!»

«Come? Non capisco!»

«Beh, non preoccuparti, ci penseremo noi a farti capire... Piuttosto: chi te lo ha fatto fare a venire qui ad ammazzare la gente?»

Vi fu una breve sospensione durante la quale John rimase in allibito silenzio, e il sott’ufficiale sembrò consultare qualcosa, poi riprese: «Ah, vedo; volontario, eh? Potevi fare il piccolo gangster a casa; hai preferito fare il soldato, più soddisfazione e meno pericolo di finire sulla sedia elettrica. Licenza di uccidere, eh

John era sempre più esterrefatto. Chi era quel sott’ufficiale impazzito? Cosa significava ‘centro di raccolta e di ricondizionamento’? La mente di John era alla tortura in una disperata domanda, la cui risposta non avrebbe potuto essere che una, tremenda: vietcong!

«Bene» riprese il sott’ufficiale, «vedo qui delle note curiose; ti fanno onore. ... Che ti aveva fatto quel bambino con il cane

«Bambino? Cane?»

«Sì, bambino e cane che hai fatto a pezzi con una granata, bell’impresa guerriera questa; valoroso il soldatino!»

«Dio mio!», gemette John. «Sono finito nelle mani dei vietcong, e costui è un rinnegato!»

Un gelo mortale gli corse lungo la spina dorsale; John ricordava molte storie dell’orrore e fremeva di disperazione; cader vivi nelle mani dei vietcong era peggio della morte, ed egli vi era caduto vivo... Fulmineamente ricordò che non lo avevano disarmato; con una mossa repentina trasse la pistola dalla fondina e la puntò sull’interlocutore urlando... «Miserabile traditore, rinnegato! Creperò, ma ti ammazzo!»

Lo scatto di John fu bloccato a mezz’aria, la pistola volò lontana e si sentì avvolgere da spirali di fuoco come fosse incappato in una barriera ad alta tensione; tutti i suoi nervi urlavano contorti in una paralisi spasmodica, il sott’ufficiale non si era mosso.

«Ma di bene in meglio! Violento il giovanotto. Vero? Ma qui la violenza non giova, sai? Qui t’insegneremo a calmarti, vedrai. Ne abbiamo domati di più feroci, bello mio, e domeremo anche te. Ah! Schiumi di rabbia? A tuo piacere, ti gioverà alla salute e capirai da solo come dovrai fare per liberarti! Buon divertimento soldatino; quando vuoi la cameriera, suona pure il campanello».

John, contratto in un’agonia in tutto l’essere, lo vide allontanarsi tranquillo, lasciandolo appeso alla barriera di alta tensione. Come una farfalla infilzata viva, egli si dibatté, ma tutto fu inutile, ben presto capì come ogni suo movimento, ogni sua reazione, scatenasse l’inferno della corrente nei nervi contorti; solo stando immobile e silenzioso poteva attenuare lo spasimo atroce. La disperazione l’invase, ma, misericordiosa, scese su di lui la benefica perdita di coscienza.

*

L’uomo è stato creato per essere felice, per essere buono; nessun limite alla gioia, nessun ostacolo alla bontà. Questa verità si viene a conoscere proprio quando si è in presenza della malvagità o della sofferenza: ai limiti la malvagità diviene impotenza, la sofferenza si perde nell’incoscienza. Queste cose il soldato John non le sapeva, ma ben presto le avrebbe imparate.

Ritornando a conoscere il suo stato, John si accorse di non essere più appeso al campo di forza, ma in luogo ristretto dove le pareti sfumavano in un grigiore di nebbia. Con stupore constatò di non aver ricevuto alcun danno dal duro abbraccio con la barriera, e che ancora non lo avevano disarmato, eccetto la pistola che era stata strappata via dalle sue mani.

Quegli strani catturatori, non si preoccupavano di disarmare i prigionieri, stante gli incredibili mezzi che avevano a disposizione. La povera mente di John lavorava freneticamente per tentare di scoprire qualcosa del luogo dove si trovava; per quanto potesse vedere, non vi era nulla da servire da indizio o da riferimento. Era una landa piatta e vuota, uniformemente grigia, e in quel grigiore, sagome più scure si scorgevano qua e là a gruppi o isolate. Non un albero, non una collina; l’orizzonte era breve, chiuso da una fila di bassi edifici incolori. Innaturale, il silenzio avvolgeva ogni cosa. Mai John aveva conosciuto un simile terrore, la sua era paura ancestrale, atavica, una paura di belva in trappola; aveva voglia di urlare e sapeva che avrebbe urlato. Per frenare il battito dei denti si morse a sangue le mani, traendo sollievo dal dolore che gliene venne.

«Non devo impazzire», impose a se stesso «non devo, sono nelle loro mani e chissà cosa mi faranno; ma non devo impazzire, non devo dargliela vinta, non devo chiedere pietà, dovranno vedere tutti come un americano sa portare alta la sua bandiera, e poi, finché mi lasceranno le armi...».

In quella, una voce risuonò vicina, chiamandolo per nome: «John; John

«Sergente?!», rispose John. «Dove siete

«Qui, accanto a te, non mi vedi, ragazzo

«Non vedo un corno in questa maledetta nebbia!»

«Ma io ti vedo John, la nebbia non può esser più densa per te che per me».

«Eppure, pare che sia così; come state, sergente?»

«Passabilmente bene, date le circostanze».

«Siamo caduti nelle mani dei vietcong?»

«Non lo so, John. …non capisco nulla».

«Siete ancora lì? Siete ancora armato, sergente?»

«Sì, ma a che serve? Meglio non fare sciocchezze John, se ci hanno lasciato le armi, è perché non temono nulla da parte nostra, ci conviene star quieti, almeno fino a quando avremo capito qualcosa...».

Intanto la nebbia sembrava dissiparsi, e John poté vedere al suo fianco il sergente; ancora una volta fu colpito dalla capigliatura perfettamente candida, notò l’aspetto sofferente e perplesso di chi non sa se sogna o se è desto.

«John

«Sì?»

«Cosa ci è accaduto realmente

«Non lo so, sergente, so solo di essere mortalmente spaventato e di avere una voglia furiosa di menar le mani, anche a costo di farmi ammazzare!»

«Non sarebbe un buon affare, John».

Tra i due pesò un lungo silenzio, entrambi cercavano di vedere qualcosa, ma nello squallido grigio panorama, c’era poco da vedere. Di colpo, come materializzato dalla nebbia, essi scorsero il sott’ufficiale arcigno; vecchia conoscenza di John.

«Ehi! Voi due, venite! Il signor maggiore vi vuol vedere. E tu, non fare scherzi, capito?». L’ammonimento era minacciosamente rivolto a John. Il sergente, dopo aver salutato, cercò di chiedere qualcosa, ma il sott’ufficiale tagliò corto, seppur con una sfumatura di cortesia.

«Saprete tutto quando sarà il momento

Il terzetto si avviò verso le basse costruzioni, sempre avvolte dalla nebbia; più volte ebbero l’impressione d’incontrare persone in movimento, ma non vi era tempo di accertarsi di nulla. Entrarono in una di queste costruzioni, trovandosi in una specie di ufficio in cui si affaccendavano due o tre persone.

Il sott’ufficiale fece un rigido saluto e disse: «Signor maggiore, ecco i nuovi!»

Così dicendo, spinse innanzi John e il sergente. Istintivamente essi salutarono, ma il saluto di John s’interruppe in un gesto di stupore e incredulità: in piedi, davanti a lui, vi era un ufficiale chiaramente tedesco, e ancor più chiaramente, in perfetta uniforme di S.S.; sul petto la svastica[10] risplendeva insieme a un’alta decorazione al valore.

«Buon Dio!», esclamarono all’unisono i due americani. Ma John già vedeva rosso, e in lui la furia esplose incontenibile.

«Maledetti!», urlò, «maledetti! Ora capisco tutto, rinnegati! .... Ma io, adesso vendicherò tutti!»

Così dicendo, con la rapidità del lampo, estrasse dalla cintura il pugnale da marines e si scagliò sul nazista affondandoglielo nel petto; con voluttà sentì sotto la lama la resistenza della stoffa e della carne, e spinse fino all’elsa. … Ma il maggiore non cadde, come sarebbe stato logico attendersi. Sul volto duro e ascetico apparve un lieve bagliore di sorriso. Intanto, il sergente, terrorizzato, aveva afferrato John: «Sei pazzo! Cosa hai fatto?!»

Il sott’ufficiale arcigno non si era mosso, restando impassibile, prese la parola dicendo: «Signor maggiore, cosa ne dobbiamo fare? Costui, credo sia irrecuperabile...».

«Nessuno è irrecuperabile, caporale», rispose il maggiore che non aveva fatto ancora un movimento, come se l’assalto di John fosse stato un soffio di vento. Dal suo petto sporgeva ancora l’elsa del pugnale. Con un gesto noncurante, l’ufficiale si strappò dal petto la lama perfettamente asciutta e la gettò ai piedi di John dicendo seccamente: «Raccoglila, soldato

Esterrefatto, John ubbidì... «Ora dammela!». E John la porse; il maggiore la prese e la porse al sott’ufficiale arcigno: «Meglio non lasciargli questi giocattoli. Prego, lasciatemi solo con lui, sergente, vi vedrò tra poco».

Il sergente e il caporale uscirono e, a un gesto del maggiore, uscirono pure i due ufficiali che erano stati immobili spettatori. John e l’S.S. si trovarono soli; John smarrito, stordito, con una disperata quanto infantile voglia di piangere. Gli occhi di ghiaccio del maggiore lo fissarono scrutandolo con uno sguardo pensieroso. Inconsciamente, John si era messo sull’attenti regolamentare.

«Riposo, soldato!» disse il maggiore che, voltandogli le spalle, andò a sedersi alla scrivania dove riprese a fissarlo in silenzio. Il silenzio durò così a lungo, che John ebbe un sussulto quando il maggiore riprese a parlare: «Soldato, sai dove sei

«Sì, tra le mani dei vietcong», farfugliò John.

«Non precisamente, anche se qui ne potrai trovare qualcuno. ... Sei in un centro di raccolta e di ricondizionamento di caduti». Si riprese rapidamente senza dare a John il tempo di fiatare. «Tu, io, i sott’ufficiali che sono usciti, tutti. Insomma, siamo dei caduti, dei morti in guerra o, se preferisci, siamo delle anime, dei disincarnati! ...»

«Morti!?», urlò John. «Morti? No, non è vero! Questi sono i vostri trucchi! Volete farmi impazzire, lavarmi il cervello, siete dei mostri, ecco cosa siete. Mostri! Nazisti e vietcong! Siete degni gli uni degli altri, e io non sono affatto morto! Oh, sì, me ne hanno parlato dei vostri trucchi, ma con me non attaccheranno, non mi farete impazzire, non mi farete diventare un rinnegato! Sono un americano io! ...»

Impassibile e assorto, il nazista l’aveva lasciato parlare e urlare senza interromperlo, e quando John tacque, soffocato dalla sua stessa furia, con voce bassa e cortese riprese a parlare dicendogli:

«Soldato, posso capirti benissimo e non ti faccio colpa di cosa senti, di ciò che pensi; però, per il tuo stesso bene, ti prego, calmati e sottomettiti alla legge comune. Se farai così, non ci costringerai a prendere nei tuoi riguardi dei provvedimenti punitivi, alla fine vedrai che ti troverai assai bene. Dovrai imparare cose che ignori, cose che ti sono necessarie, ma non potrai imparare nulla se ti lasci travolgere da questa furia; hai bisogno di spiegazioni e le avrai, ma prima devi convincerti della verità. ... Il tuo corpo di carne non esiste più, quello che senti come il tuo corpo, non è quello fisico, ma quello eterico. Le nostre forme e le nostre sensazioni appartengono a una diversa dimensione della materia, tu non puoi accorgertene perché la tua mente vaneggia tra le immagini del recente passato. Devi placarti, fare silenzio in te, e quanto più presto lo farai, tanto prima ti sentirai più sereno, più libero.., forse più felice!»

«Non è vero!», urlò John. «Voi mentite! Mentite! Mentite!»

Sul volto del maggiore apparve un’espressione indecifrabile. «Povero ragazzo, ti comprendo e ti compatisco, ma non posso lasciarti in questo tuo volontario inganno; tu sai di essere morto, lo sai ma non vuoi ammetterlo. Non vuoi ammetterlo perché ti vergogni, perché sai che i tuoi pensieri, i tuoi atti, furono e sono riprovevoli. Ma quanto più ti ostinerai a negare la verità, tanto più, questa ti ossessionerà. Dovrai ammetterla per forza, e dovrai piegarti davanti a lei. E quanto più tarderai, tanto peggio sarà per te. Accetta almeno, come ipotesi di lavoro, l’idea di essere morto, e vedrai, tutto sarà più facile»

«Già!» ghignò John. «Comodo. E credete ch’io la beva? Siamo morti, vero? Tutti morti! … E voi, signor maggiore del grande Reich, maggiore delle S.S. di Hitler, ve ne state qui con una divisa immacolata, con splendide decorazioni, a farmi la predica? Sembrate quasi un pastore. Siete convincente! Straordinario questo nuovo sistema di intontimento, d’imbottimento di crani, degno, pienamente degno di Hitler e di Stalin. Con qualcuno forse funzionerà; ma con me, no! Per Dio! Con me, no!»

Alla bestemmia il maggiore si era alzato in piedi e dominava con lo sguardo di ghiaccio il frenetico John. «Smettila, soldato! ... Non pronunziare invano il nome di Dio! Siamo tutti sotto la Sua legge e soggetti alla Sua giustizia! La mia divisa è immacolata perché l’ho portata con onore, le mie decorazioni risplendono perché duramente guadagnate al servizio di un’Idea; di Hitler non so, di Stalin non discuto, ma potrei dirti, soldato, che i mostri sadici, se a questi ti riferisci per insultarmi, non mancano decisamente neppure da voi, né vi mancano gli sfacciati bugiardi della propaganda e della guerra psicologica, né è di loro che dobbiamo discutere. Ognuno sbaglia e paga per conto proprio. Mi è stato affidato un mandato, cerco di adempierlo facendo del mio meglio; rendermelo difficile non giova a nessuno! Che tu lo voglia capire o no, sei morto; il tuo corpo, o almeno quanto ne rimane, marcisce nella giungla. Se sarà necessario, ti porteremo a vederlo e ne riparleremo...».

Come richiamato telepaticamente, il caporale dall’aria acida era rientrato nell’ufficio e stava alle spalle di John: «Caporale, vi affido questo ragazzo, non vogliate essere con lui troppo duro, non ragiona, è sconvolto...».

«Infami!». John, pazzo, schiumante di collera, tentò di avventarsi, ma si ritrovò immediatamente avvolto in un velo di bruciante dolore, appeso a un campo di forza. Il maggiore si era allontanato.

Ovattata, giunse agli orecchi di John la voce arcigna del caporale: «La smettiamo? Chi credi d’impressionare, zotico che non sei altro? Fatti un esame di coscienza, piuttosto, e impara il pudore... Proprio tu fai l’orgoglioso? Fucilatore di cani! ... Assassino

Poi, intorno a John, tutto fu silenzio e buio. Quanto tempo passò? Minuti, o secoli? Alla fine, cos’è l’eternità se non un tempo senza tempo, uno spazio vuoto senza punti di riferimento? John venne scosso da una voce nota che lo chiamava con insistenza: «John, John

Egli riconobbe quella voce: «Sergente?», sospirò.

«Sì, ragazzo mio, sì, sono il tuo sergente. Ascoltami, figliolo...».

«Cosa? Hanno convinto anche voi

«No, ragazzo, no! Nessuno mi ha convinto. Ma la verità è che, ... sì, ... insomma, siamo stati fottuti! Puoi crederlo o non crederlo, ma non c’è niente da fare, siamo regolarmente morti, impossibile esserlo di più, ho visto il mio corpo e non era un bello spettacolo, ho visto anche il tuo; non ostinarti, perché se no, dovrai vederlo. Sentimi: dammi retta, sottomettiti! Scusati! Nessuno ce l’ha con te. In fondo, eri un ragazzo. Qui vi è molta bontà».

«Andate via!». La voce di John fu un urlo rauco, di belva. «Via! Rinnegato! Via! Traditore! ...»

Un soffocato sospiro di rammarico fu la risposta. Di nuovo silenzio e tenebre, e paurosa solitudine. John, fisicamente, non solo non soffriva, ma aveva la sensazione di essere sotto anestesia, non avvertiva più il suo corpo, solo la mente viveva e vibrava dolorosamente in una ridda[11], in un rimugino continuo di pensieri e di ricordi. Paura e angoscia erano gli stati che conosceva di più. Infine, una solitudine atroce portò un nuovo tormento, il dubbio; il dubbio di aver sbagliato, il dubbio che gli altri potessero aver ragione. Non si sentiva più tanto eroe, non era più tanto deciso ad aggredire, l’ira se ne andava e, con l’ira, la forza morale che lo aveva sostenuto. Si possono affrontare supplizi e carnefici, l’orgoglio talora tiene banco, ma il buio, il silenzio, l’assenza di ogni compagnia.., anche quella di un topo, di uno scorpione, di un serpente a sonagli, sarebbe stata gradita. Il fanciullo riaffiorava in lui, un fanciullo in castigo che aveva tanta voglia di chiedere perdono; ma non vi era alcuno a cui chiedere perdono.

Intanto, qualcuno si stava occupando di lui, e questo qualcuno era proprio il nazista. Aveva convocato alla sua presenza l’ex sergente di John e un caporale di nome Dan, che noi già conosciamo, l’arcigno sott’ufficiale con il quale John si era scontrato per primo. Il maggiore interrogava l’ex sergente: «Conoscete bene il soldato John

«Sì, signor maggiore, lo conosco abbastanza, non è un cattivo ragazzo, è solo un fanatico imbottito di propaganda».

«Me ne sono accorto», sorrise il maggiore. «Ma che si può fare per lui

«Saprei io cosa fare», interloquì l’arcigno sott’ufficiale. «Lo sbatterei su quanto resta del suo cadavere, e starei a vedere se continua a sostenere di essere vivo».

«Caporale, quante volte vi ho detto che questo complesso del giustiziere è un errore; siamo qui per salvare le creature, non per dannarle, un soggetto come il soldato John si perde se portato alla disperazione, e sarebbe un peccato, perché questo ragazzo mi piace, è un valoroso che non si arrende, e se diventasse un disperato vampiro, riempirebbe il mondo col suo odio. Non trovate che di odio nel mondo ve ne sia a sufficienza

Il caporale tacque stringendosi nelle spalle; il maggiore si rivolse al sergente di John: «Voi, che suggerite di fare per questa creatura? Non ha parenti, amici, capaci di consigliarlo

«Signor maggiore, l’unico amico che avrebbe, sarei io; ma mi ha scacciato come un cane. Certo, non me la prendo, vorrei tentare ancora, ma temo di far peggio. Il guaio di John è nella sua natura. Lui è aggressivo per difesa e per ignoranza; il suo coraggio è irriflessivo, fatto di scatti. Io conosco i miei uomini, e lui ha bisogno di vivere in una continua effervescenza. teme di perdere le sue convinzioni, teme di scoprire il vuoto che c’è sotto lo sventolio delle bandiere».

«Egli partì volontario, vero

«Sì, signor maggiore, partì volontario, ed è stato un buon soldato, come dico, un fanatico avido di considerazione. Nell’esercito si sentiva importante, lo chiamavano l’eroe dei fumetti, e si arrabbiava da matto, era convinto della sacra missione degli Stati Uniti, un crociato. ... Dava ai nervi a tutti, ma ciò nonostante, era un buon ragazzo. Signor maggiore, …lo compatisca».

«Certo che lo compatisco, ma compatirlo non basta, bisogna tirarlo fuori, farlo ragionare».

Un’ombra passò negli occhi glaciali del maggiore, anche lui ricordava e capiva; anche lui, infatti, conosceva il significato di essere posseduto da un’idea, perché anche lui, spesso, aveva tremato di fronte a una possibilità di tradimento della stessa, e in John aveva sentito passare l’identico torrente di un fanatismo al quale tutto deve essere immolato. Il sergente continuava a parlare, e il maggiore quasi non l’udiva, captò le ultime parole: «…adesso è spaventato, e ne ha di che, se ci si pensa, anch’io, signor maggiore».

Il nazista si scosse, «A proposito, sergente, quanti anni avete

«Trentacinque, signor maggiore».

«Come mai anche voi, con le idee che avete, vi trovate volontario

«Che ci vuol fare, signor maggiore; la paga mi faceva comodo, amavo l’avventura. D’altronde, ero solo, e nessuno avrebbe pianto per me».

«Vi capisco, sergente, da un mucchio di tempo non faccio che capire, ma questo non risolve il problema del nostro soldatino».

Nell’ufficio risuonò a un tratto una voce senza età che diceva: «Che il Cielo si stenda su di voi, e la sua pace vi compenetri, fratelli d’Occidente. Può, il povero bonzo, essere d’aiuto a qualcuno

Il nazista era balzato in piedi salutando militarmente. «Ben arrivato tra di noi, venerabile, siamo tutti onorati dalla vostra presenza».

Il nuovo arrivato era un bonzo[12] avvolto nella veste arancione che sembrava tessuta di luce; ispirava riverenza, tuttavia un certo lieve sorrisino indicava una educata ironia. Era fraterno e scostante allo stesso tempo, un giudice bonario, ma giudice, simile a un gatto domestico: affettuoso, ma gatto!

Il nazista sembrò sollevato dall’apparizione e, licenziati in fretta i suoi interlocutori, proruppe: «Sì, venerabile maestro Mi-Con-Fù, ho molto bisogno di voi». Poi riassunse in brevi frasi il problema di John, e aggiunse: «Questo ragazzo mi sconvolge letteralmente. Intuisco in lui una natura strana, strana e fraterna; non posso abbandonarlo al corso normale della legge. ... Eppure, se lui rifiuterà di aiutarmi, non potrò far più nulla. ... Nulla! capite

«Fratello d’Occidente posso tentare io?», disse mitemente il bonzo. «Credo sommessamente che si sia sbagliato ad esaltare in lui la personalità del soldato, e non si sia cercato piuttosto, il fanciullo smarrito. Questo John m’interessa. Di solito, nessuno è più buono di questi... cosiddetti ‘cattivi’».

«Avete ragione, venerabile; ma solo voi potete tentare in questo senso. Vi prego, fatelo!»

«Dov’è adesso

«Nelle celle vuote».

«Sarà disperato...».

«Lo era. Lo era al limite estremo della resistenza».

«Andrò, fratello d’Occidente».

«Grazie di cuore

 

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Cap. 3

Il bonzo

John era disperato. Il silenzio, la solitudine, l’inerzia, il buio che non era neppure nero, ma grigio, nondimeno ugualmente avvolgente, ugualmente accecante. Per il poveretto, l’esistere era solo un martirio, il peggiore; si sentiva vivo e, soprattutto, ben vivo, ma questo ‘più nulla’, significava per lui terrore. Tuttavia, con uno strano sollievo, egli capì di essere ormai pronto a qualunque ammissione, a qualunque rinnegazione. Era spezzato, e lo avevano spezzato così, nel silenzio e nel vuoto, senza neppure toccarlo. Nel profondo dell’essere la sua natura di soldato aveva ancora qualche esile volontà di reazione, ma quelle povere volontà si smorzavano da sole, cadendo in un vuoto di pensiero, in un vuoto di tutto l’essere. Stranamente cominciava a capire molte cose; ma a che gli sarebbe servito capire? Con un intimo sorriso ironico verso se stesso, chiuse gli occhi; ma tanto, chiusi o aperti era lo stesso, non c’era proprio nulla da vedere.

Di colpo li spalancò; un tocco d’inesprimibile delicatezza gli aveva sfiorato la fronte e vide dinanzi a sé un volto incredibilmente vecchio e dolce, colmo di saggezza e di comprensione. Un saio arancione che sembrava luminoso avvolgeva una sagoma estremamente esile, due meravigliosi occhi di giaietto[13] nero lo fissavano con una tale carica di umana simpatia, che John si sentì scosso fin nel profondo, una voce carica di saggezza secolare lo chiamò affettuosamente:

«John! Mio povero ragazzo

Spezzato, fiaccato nell’orgoglio, incapace ormai di ogni reazione, ridotto a un piccolo bambino spaventato, John si abbandonò con infinito sollievo all’incantesimo di quella voce, di quella presenza. Una sorta d’istinto spirituale lo rese edotto, per la prima volta, di non aver nulla da temere; un senso dolce e pieno di fiducia, un bisogno di abbandono che lo rendeva docile a una nuova influenza, diversa e meravigliosa.

Il vecchio volto luminoso di bontà, il mite sguardo, il timbro gentile della voce, lo attraevano, lo calmavano, lo consolavano. Si rivide bambino per mano della nonna che lo conduceva a messa, e con la stessa fiducia capì che avrebbe potuto seguire il vecchio meraviglioso.

«John, vuoi parlare con me

«Sissignore», rispose John umilmente.

«Allora vieni, vieni con me, dove potrai gustare quiete e ascoltarmi con tranquillità».

E così dicendo lo prese per mano attirandolo a sé senza sforzo. John si guardò intorno stupito, non vi era più nebbia. Era un’imprecisata ora mattutina, piena di Sole, di voli di uccelli, di affaccendarsi di insetti multicolori; a perdita d’occhio si scorgeva un panorama ridente di alberi fruttiferi e di erba verde; a poca distanza un lago intensamente azzurro rifletteva la luce del Sole. Verso quel lago s’incamminò il nobile vecchio, e John lo seguì. Giunto alla riva, il vecchio si sedette su di un panchetto di muschio. John, placato, si accoccolò ai suoi piedi. Misuratamente, il vecchio incominciò a parlare: «Figliolo, conosco il tuo stato confusionale e angoscioso, e voglio aiutarti a liberartene, ma mi è impossibile senza il tuo aiuto, senza la tua collaborazione».

«Padre, cosa devo fare?»

«Nient’altro che ascoltarmi, e dopo potrai farmi tutte le domande che vuoi e alle quali cercherò di rispondere il più chiaramente possibile».

«Sissignore, grazie signore... Ecco, io vorrei.., vorrei sapere cosa veramente mi accade e dove sono».

«Figliolo, so che ti sembra impossibile quanto ti accade, anche perché non hai termini di comparazione. Qui, in questa dimensione, ci vedi reali, come nella tua primitiva dimensione ci avresti ritenuti irreali. Se ti fossimo apparsi quando eri sulla Terra, avresti detto di essere vittima di un’allucinazione. Ugualmente, se qui comparisse un corpo fisico, sarebbe per tutti noi un’allucinazione. Sulla Terra abbiamo tutti una specie di involucro fatto di carne, qui abbiamo il nostro vero corpo, che è il corpo eterico fatto di una materia sottile, ma non meno solida e reale di quella “apparente” sulla Terra, su quella Terra che hai lasciato, e che di te conserva una spoglia simile alla pelle che il serpente lascia quando si muta. Anche per te è venuta la grande mutazione, e ora tu qui vivi una vera vita, poiché la tua essenzialità è interamente contenuta nei corpi sottili che ti costituiscono. Come sulla Terra tu avevi un sistema nervoso e un sistema circolatorio, qui hai un corpo passionale ed emozionale, nei quali sono pienamente integrate le memorie della tua breve esistenza (che evidentemente non hai potuto elogiare) e logicamente sei spaventato dall’alternarsi delle due realtà».

«Ma signore...!»

«Taci, figliolo, lasciami dire e cerca di seguirmi, è per il tuo bene. Dimmi: hai seguito qualche religione? Sai qualcosa dell’anima

«So ben poco, signore. Quello che insegnavano al catechismo, ma non ero molto bravo, e... poi... qui, non è come diceva il prete».

«Già», sorrise il bonzo, «qui non ci sono angeli svolazzanti, né diavoli con la coda di scorpione e corna da toro.., anche se, tutto sommato, potrebbero esserci; certo, se tu ti fossi fissato in questo pensiero, ecco che li vedresti. Invece vedi cose usuali, forse banali, ma reali, com’è reale la mia e la tua natura animica. Qui non sei tra nemici, nessuno vuol lavarti il cervello o farti tradire il tuo giuramento. Anzi, tutti coloro che si prendono cura di te, vogliono il tuo vero bene. Io sono qui con l’autorità che viene loro dall’avere perfettamente adempiuto il loro giuramento; come te, essi sono senza un corpo di carne, ma viventi e operanti nella loro natura eterica, e chissà che in un domani, forse vicino, tu non sia come loro al servizio dei tuoi simili. Hai sofferto molto, ma queste sofferenze non erano né punizioni né vendette; erano una cura necessaria per guarirti dalla malattia della vita terrena, e per inserirti felicemente nella vera vita».

La voce del vecchio maestro, pur essendo piana e soave, non mancava di ferma autorità, e John la sentiva penetrare in sé, come la terra riarsa può sentire la dolcezza di una pioggia benefica. Non capiva, non poteva ancora credere, ma sentiva d’istinto che quella era la verità, una verità forse terribile, ma certamente grandiosa. Si torceva le mani, che sentiva ben corporee, ben vive, ma ormai quella certezza era incrinata.

«Signore», anelò, «io divento pazzo».

«Al contrario, stai rinsavendo; stai imparando a usare le tue facoltà, mentali e spirituali».

«Non riesco ancora a capire. Ma dove sono finito, alla fine?»

«Ti è stato detto (forse un po’ bruscamente) il giorno stesso che ti svegliasti dal tuo sonno mortale; sei in un centro di raccolta e di ricondizionamento di caduti in guerra».

«Ma perché?»

«Te lo spiego subito, ascolta: gli uomini muoiono in due modi, per consuetudine o per crisi. Usualmente, quando la morte sopraggiunge in seguito a malattie organiche o a vecchiaia, per coloro che muoiono in questo modo vi è una preparazione graduale del distacco dai corpi sottili, dove la stessa agonia serve a ciò; i riti religiosi sono una preparazione, il morente, conoscendo il suo stato, viene predisposto e consolato, intorno a lui cedono le passioni, si placano i contrasti, gli estremi, coscienti addii, sono veramente un viatico[14], e molto male fanno i medici a nascondere al morente il suo stato, rischiando di mandarlo sprovveduto nella sua nuova forma di esistenza. Spesso, degli amici, parenti premorti, vanno incontro alla soglia della coscienza, spesso l’agonizzante li riconosce, serenamente, senza stupirsene, e conversa con loro; certi moti della bocca, negli ultimi momenti, sono non tanto parole che avrebbero voluto ancora dire ai vivi, quanto l’inizio di una conversazione con i morti (che per lui diventano i soli viventi). La nebbia cala sul “mondo delle forme”, il Sole si leva su quello delle idee; se la vita fu corretta, se fede, speranza e carità animarono il soggetto, la morte finisce per essere un’esperienza esaltante. Beato chi, terminata una lunga vita sazio di giorni, infastidito dal peso della materia esausta, lascia la vuota crisalide e, come un insetto perfetto, spiega le ali di luce e vola al suo Dio. L’attimo della morte di un giusto è, per la Terra intera, un gaudioso avvenimento, un arricchimento di potenza spirituale. Il giusto, morendo, lascia ai vivi il soprappiù delle sue ricchezze interiori. Per chi, invece, incontra la morte per crisi, la cosa è diversa. La morte violenta, per suicidio o omicidio, in guerra o per causa di disgrazie naturali, specie se giunge inaspettata, inavvertita, è veramente una ben dolorosa esperienza; per colui che muore per causa violenta, qualunque ne sia il genere, l’improvviso incontro con la vita d’oltretomba è un trauma gravissimo, in special modo se chi muore è attaccato fortemente alle sue passioni e perciò è del tutto impreparato a lasciare un corpo nel quale si identifica. Perfino una condanna a morte, perfino un’esecuzione crudele è meglio del brusco recidere il filo d’oro, del brusco catapultare in un’altra dimensione. Questo è stato il tuo caso, ed è il caso dei più che la guerra falcia in pieno odio e violenza. E se chi muore in tal modo non viene isolato prima, soccorso poi, si troverebbe a mal partito; i corpi sottili, passionali ed emozionali si ispessirebbero in un duro bozzolo, avviluppante e soffocante tutte le facoltà spirituali, ottundendo le capacità razionali e lasciando solo prorompere e affermarsi quegli aspetti negativi della personalità che meglio si esprimono come paura e aggressività. Se noi..., come dire, fratelli anziani, non intervenissimo in tempo, queste povere anime finirebbero ben presto preda di forze oscure e malvagie, che si servirebbero di loro per nuocere al maggior numero di uomini ancora incarnati. Sui campi di battaglia o in qualche grande cataclisma, è facile intervenire con prontezza; meno facile è nello stillicidio delle grandi città, che finiscono col diventare veri ricoveri diabolici, autentici inferni che la persona sensibile intuisce con estremo disagio, e dove fatti di sangue, crudeltà, violenza, si susseguono a ritmo serrato. Hai mai notato che dove avviene un suicidio, ne avvengono in breve tempo molti altri, e dove accadde un’incidente sulla strada, in breve in quel punto gli incidenti si moltiplicano? Morte chiama morte, sangue chiama sangue, delitto invoca delitto. A rimedio e soccorso, la Divinità non manda angeli o geni, manda invece dei disincarnati che, essendosi riconosciuti in Lei, non cessano di riconoscersi nell’uomo, e perciò possono veramente dare un aiuto concreto ai loro fratelli di vita».

John taceva attentissimo, annichilito.

«Subito dopo la vostra rappresaglia», il bonzo riprese, «seguita dall’imboscata in cui tu e i tuoi compagni perdeste la vita, il distaccamento a ciò addetto intervenne; i più maturi tra voi, i meno passionali, quelli che avevano una naturale avversione a ogni crudeltà, facilmente accedettero all’avvenuta trasformazione, e chiesero di entrare nella nuova milizia; richiesta che venne accolta con slancio (mai troppi sono i cavalieri dell’ideale). Tu, e pochi altri, sceglieste, invece, la via della ribellione, della non accettazione, offuscati dalla passione di parte, e così foste subito posti in condizione di non poter più nuocere a voi stessi e agli altri. In special modo, tu eri una belva irragionevole, spaventato a morte hai trovato un unico rifugio nell’aggressività; si capì benissimo la tua confusione mentale, e non si volle credere che tu fossi irrimediabilmente malvagio, non si presero nei tuoi confronti provvedimenti punitivi, ti si volle aiutare. Il comandante del centro in particolare mi pregò di tentare di farti ragionare... Ed eccomi qui».

John stava silenzioso. Rimuginando l’incredibile storia, la quiete sovrana dell’ambiente lo penetrava fino in fondo, e levando gli occhi verso il suo mentore, non poté frenare un moto di riverenza, tanto l’aspetto del venerabile bonzo era pieno di benigna maestà.

«Co... come devo chiamarvi, signore?», balbettò John.

«Come vuoi, figliolo, come il tuo cuore ti detta, maestro o fratello, per te sono l’uno e l’altro»

John aveva solo più una disperata voglia di piangere, contro la quale lottava come un bambino cocciuto che non vuole ammettere il proprio errore; eppure, capiva che solo abbandonandosi a quel pianto, come in un nuovo battesimo, sarebbe stato ricreato. Come fuori dal caso, prese a dire: «Avevo una nonna Signore, una nonna tanto vecchia e tanto buona. Se non vi offendete... vi somigliava...»

Il bonzo sorrise ineffabilmente, un sorriso da Buddha: «Puoi chiamarmi anche nonna, se credi che ciò ti agevoli; io sono anche lei, non essendo lo spirito diviso in forme o sessi, ma unitario nell’essenza. Io sono tua nonna se essa conosceva l’amore; se tu lo conoscerai, sarai anche me».

Adesso John aveva qualcosa di cui parlare, in cui vuotare l’emozione che lo strozzava: «Mia nonna era molto buona, molto religiosa, mi portava in chiesa, non voleva che facessi a pugni, che sgraffignassi la frutta dai banchetti dei mercati, ma non mi picchiava mai; diventava triste quando ero cattivo.., e mi guardava con occhi da Gesù. Tutti volevano bene alla nonna, anche se la prendevano in giro per la sua mania verso gli animali randagi. ... Sapete che non beveva il suo latte per darlo ai vecchi gatti? ... Quando morì si fece promettere da mio padre che avrebbe dato sempre ai gatti la sua scodella di latte, e che non li avrebbe mai scacciati. ... Perdonatemi signore. Siete cristiano?»

«Non lo so figliolo e non m’interessa saperlo; gli uomini amano dividere, catalogare. Dio ama unire, fondere, cancellare le differenze... Dio è Amore! Cristiano o musulmano, buddista o ebreo, induista o libero pensatore, per Dio, Spirito purissimo, Luce increata creante ogni cosa, non ha importanza. Egli non chiede all’anima: cosa hai creduto? Ma: come hai vissuto, come hai operato? In tutte le religioni s’insegna a ben operare, a ben amare, a vincere egoismo e separabilità, orgoglio e presunzione. In tutte le religioni Dio è la Meta suprema, l’unico premio a cui si giunge solo al prezzo della totale rinnegazione di se stessi, del dono totale dell’Amore. Ognuno, come può, come sa, cammina e giunge più o meno ferito, più o meno estenuato alla meta della morte fisica, per trovare nel cuore stesso di Dio, pace, ristoro, perdono. Solo chi rifiuta consapevolmente l’amore, chi rifiuta la pietà, la tenerezza, si perde miseramente. Chi ama, in qualunque maniera ami, purché il suo amore non sia egoistico, si salva».

«O signore!», gridò John, «ma allora, io sono perduto!»

Il volto di vecchio avorio del bonzo assunse un’espressione divertita. «E perché mai?»

«Ma per tutto quello che ho fatto, per come ho agito!»

«Oh, figliolo, figliolo! Ma non hai ancora capito che tutto questo tumulto che ti porti dentro, questo martirio del cuore, quest’angoscia che ti fa impazzire, null’altro è, se non, amore? Oggi il suo nome è rimorso, domani sarà comprensione, sarà giusta valutazione di te stesso e degli altri. Nessuno si perde quando l’amore piange. Ora debbo lasciarti, figliolo, ma non temere, anche se tutto tornerà come prima; sii solo docile con i tuoi superiori, essi sono i tuoi maestri e non vogliono che il tuo bene, sii docile e grato; lasciati guidare, obbedisci sempre, prega nel tuo cuore il Padre di tutti, affinché strappi l’odio dall’anima tua. Un giorno, soldatino, ci ritroveremo; quando avrai riscattato i tuoi errori e maturato consapevolmente capirai le esigenze di questa dimensione, sarai pronto per una nuova e più splendida avventura di vita. Sii benedetto, sii in pace!»

Il venerabile bonzo lentamente svanì insieme al bel panorama, nella nebbia impalpabile che era tornata a calare. John rimase solo, stordito, confuso, stranamente rassicurato, qualcosa che somigliava alla pace era scesa in lui, qualcosa in cui pensare sempre senza urlare di terrore. Non sapeva ancora, non era del tutto convinto, ma sentiva di accettare un’incomprensibile verità che era ormai la sua sola realtà. Lento, impalpabile, il tempo, o quanto ne faceva le veci, passò; John si era ed era stato inserito nella vita del centro, la quale era piuttosto monotona, e non dimostrava di voler cambiare. John imparò che altrove, nel mondo dei vivi, le azioni seguivano le azioni e la guerra continuava; a rivelarglielo era la continua vista delle centinaia di anime sbalordite e terrorizzate che arrivavano dai campi di battaglia.

Trascorse ore pesanti di angoscia e di tentativi abortiti di rendersi utile, un mondo affaccendato dove nessuno mostrava di sapere che farne di lui; il buon bonzo era svanito nel nulla, come pure il maggiore nazista, al quale avrebbe voluto chiedere scusa del suo comportamento. Talvolta aveva intravisto il suo ex sergente indaffaratissimo che non si era fermato a parlargli; chi non era svanito nel nulla, anzi costituiva un vero incubo per John, era l’arcigno caporale, il quale metteva una cura speciale nel perseguitare il terrorizzato soldatino. Spesso John attraversava vere crisi di apatia in cui tutto e nulla avevano egual valore; allora una specie di pace da narcotico scendeva su lui, ma più spesso si sentiva tragicamente vivo e incapace di fare alcunché di quella sua vita. Dalle profondità dell’anima aveva recuperato alcune infantili preghiere e le recitava abbandonandosi all’onda dei ricordi e dei rimpianti; allora la sua breve vita gli appariva come un qualcosa di veramente prezioso, di irrimediabilmente perduto.

Con infinita amarezza ricordava e rimpiangeva: perché, perché alla fine era partito per quel maledetto Vietnam? Perché andare volontario? La ragione, nella coscienza risvegliata, rispondeva sinceramente e crudelmente: per una stupida vanità, per non aver voglia di applicarsi a un lavoro, per sottrarsi alle responsabilità della vita familiare.

Ormai non vedeva alcuna possibilità di cambiamento nella sua squallida esistenza; in cuor suo, talvolta pensava se non avrebbe fatto meglio a rifugiarsi nella pazzia della negazione, perdersi nella rivolta suprema.

«Come potrei star peggio di così?», si diceva. Ma ricordava il buon bonzo e la promessa che si sarebbero rivisti. Quando? Dove? Eppure, a quella promessa si aggrappava, era un’esile speranza, ma era ancora qualcosa che gli apparteneva, in cui poter nascondere la sua angoscia senza nome.

 

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Cap. 4

Cambiamenti in vista: due diventano amici

Per l’ennesima volta John ascoltò disperato l’ennesima sfuriata del suo caporale, quando alle sue spalle una voce giovane, ridente e insolente, intervenne: «Di’, recluta! Non prenderai mica sul serio questo grosso barattolo di vasellina?»

Stupefatto, John si voltò e scorse un giovane in divisa della folgore italiana, con il berretto sulle ventitré, una mano insolente sul fianco, una sigaretta accesa all’angolo della bocca, uno sprezzante sorriso. Il caporale Dan divenne addirittura funereo: «Ancora tu, Pietrino

«Sì, Oui, Yes, Ja, Da, o quel che diavolo preferisci, vasellina. Sono proprio io, per grazia di Dio e volontà della Nazione, caporal maggiore Pietrino Mori, livornese di nascita, folgorino d’elezione, fottuto per la stupidità della guerra. E tu? Sempre arrabbiato con i volontari

«Quando diventerai serio, Pietrino

«Mai, per grazia di Dio!»

«Cosa sei venuto a fare?»

«A deliziarmi del tuo aspetto, vasellina; mi mancavi».

«Parla seriamente, se è possibile».

«Tutto è possibile in questo mondo e nell’altro!»

«Ma insomma

«Insomma, siamo venuti a dare il cambio»

«Il cambio?»

«Già, il cambio; d’ora innanzi più niente yankee, nazi, bonzi, quaccheri, e simili; ma noi della Folgore, ed era ora per tanti poveracci, no?»

«Senti Pietrino, se ti è possibile, parla seriamente!»

«Parlo seriamente; pare che gli alti comandi abbiano deciso di muovere un po’ le acque dalla parte del Medio Oriente; quella è gente seria, ed ha pensato di spedirvi là come più adatti, ed ha spedito noi qua a tenere un po’ più allegri questi poveri diavoli che devono averne abbastanza di prediche e di salmi».

«Pietrino...?»

«Vasellina del mio cuore!»

Esterrefatto, John ascoltava, guardava alternativamente l’uno e l’altro interlocutore, non credendo a ciò che vedeva e udiva. Il suo mondo mentale veniva capovolto; il magnifico insolente ragazzo della Folgore sembrava la quintessenza della scanzonata giovinezza, e il severo caporale non solo non reagiva alla sfacciataggine dell’altro, ma la subiva passivamente come fosse scontato che non vi era altro da fare, affascinato dalla bellezza strafottente e gaia del nuovo venuto.

John aveva sentito parlare dei ragazzi della Folgore, ma non era mai riuscito a immaginarseli, ed ecco che uno di questi leggendari cavalieri del rischio si ergeva davanti a lui ironico, sicuro di sé, magnifico. Era il lato eroico, fresco e gioioso dell’avventura guerresca che si presentava al povero avvilito John, l’incarnazione di un sogno ormai lontano, ormai rinnegato.

Ma già nel centro nasceva un ordinato movimento di formicaio in marcia; senza replicare, il burbero caporale era andato di corsa al suo posto, i ranghi si muovevano con ordine e disciplina, ovunque erano evidenti i segni di un rapido cambiamento. Le voci gutturali o miagolanti, gli accenti slang[15], venivano sostituiti da voci di cantanti, da liquide desinenze latine; John si vide intorno facce sorridenti e scanzonate, e scorse divise a lui quasi sconosciute.

Ragazzi della Folgore, bersaglieri, carabinieri, e tra essi inequivocabili, malgrado la divisa, delle giovani donne, crocerossine, ausiliarie. Un’aria nuova circolava, un’aria di Kermesse eroica, ma dove l’eroismo era solo un modo di far chiasso, di ridere, di sfottere senza peso, senza cattiveria.

John si sentì più solo, più triste che mai, rimpiangeva persino il suo acido caporale, anche se era il suo persecutore, era pur sempre un pezzo della patria, un pezzo del suo mondo; i nazisti i bonzi i vietcong erano figure familiari, razionalizzate, prevedibili; non come questi strani nuovi venuti, dall’eloquio precipitoso, dalla risata pronta, dalla scanzonata irrisione di ogni cosa. Questi italiani versatili, mimetici, imprevedibili, con i quali era impossibile orientarsi su quello che era bene o male, su quello che si doveva fare o non fare. Fu perciò con autentico sollievo che egli scorse di nuovo il suo caporale che era rimasto, e non era andato con gli altri. John ne fu rassicurato; tutto sommato era qualcuno di familiare, qualcuno con cui comunicare, una specie di burbero parente, ma dello stesso sangue.

Nel campo, il folgorino (Pietrino Mori della Folgore) era una gaia forza della natura, e John scoprì con stupore, che tra questi e il suo ex caporale correvano rapporti tanto affettuosi quanto burrascosi; poco per volta John apprese che circa diciassette anni prima il folgorino aveva accolto, alla morte, il suo caporale, caduto mentre portava soccorso a dei feriti, e che lo aveva aiutato nell’inserimento con molto affetto. Apprese pure che Dan, Daniele, questo era il suo nome, morendo aveva lasciato la moglie incinta, e il figlioletto era nato postumo. Dan si struggeva di questo figlio, e nel folgorino lo sognava, lo immaginava; di qui una tenerezza che il folgorino irrideva amichevolmente.

«Ah! Daniele nella fossa dei leoni. Daniele, Daniele, tutto cuore e tutto fiele».

Nel centro di raccolta l’atmosfera era molto mutata, ma i superiori si vedevano di rado, tra questi, John intravide una tonaca di domenicano, ma i suoi rapporti rimasero al consueto livello tra il caporale Dan e il caporale Pietrino. Costui non teneva al suo grado, che per sfotterlo, voleva con i suoi sottoposti rapporti di aperto cameratismo, per cui ben presto la timidezza e soggezione di John provocarono una burrasca...

«Senti, recluta! Se non la smetti di dirmi sissignore a ogni fregnaccia che dico, garantisco che ti scaravento sulla Terra!»

La sfuriata terrorizzò ancor più il malcapitato John, il quale tacque interdetto.

Il Mori riprese: «Avanti! Fuori il verme! Mi sai dire che diavolo hai con quest’aria di seminarista malcontento?»

«Signore...», balbettò John.

«Signore...», scimmiottò l’altro. «Ehi, paisà, la vogliamo smettere?»

John non riuscì più a frenare il pianto, e piangendo diede la stura[16] ai suoi sentimenti, ai suoi rimorsi, alle sue paure...: «Signore... io sono un volontario!»

«E allora?»

«Un volontario, capite? Sono andato in guerra volontario...».

«Ma sì! Che c’è di strano?»

John soffocava: «Ma è finora che mi si fa colpa di essere andato volontario».

«Chi te ne ha fatto una colpa?»

«Il caporale Dan».

Il Mori scoppiò in una risata. «Dunque, recluta, siamo a questo punto? Dalla tua aria pensavo che avessi fatto chissà cosa, ma povero cucciolo, grosso e scemo! Non sei capace di rispondere che chi dà la pelle per il suo ideale non può dar nulla di più?»

«Signore!»

«Ta, ta, ta! D’accordo recluta, risparmiami i piagnistei. Tu avresti voluto fare il boy- scout, se ti avessero offerto le stesse possibilità? Ma a vent’anni si è tutto, meno che dei boy-scouts, e allora hai giocato la ghirba[17], vero? ... Ce l’avevi la ragazza? ...»

«Signore...».

«E piantala con questo ‘signore!’. Vi è poco dà capire ragazzo mio. Siamo stati tutti ingannati in nome dell’ideale. Tutto sommato, non è poi tanto male. Per me, adesso, sarebbe già il tempo dei reumi, e la mia ragazza ha rivelato poi un caratterino che, guai, se fosse toccata a me! Come vedi, ci sono dei vantaggi, l’unica rogna e che qui la naja non finisce mai, reclutati a vita senza licenze e altri fronzoli. ... Senti, recluta, ora finiscila! Su con la vita, siamo giovani, lo saremo sempre, e questo non è da disprezzare; vuoi fumare?»

Così dicendo, offrì un pacchetto di sigarette. Istintivamente, John tese la mano, «Posso

«Se lo vuoi».

Ma la mano tesa di John incontrò il vuoto. Mortificato, desistette.

«Stupido! Se davvero vuoi fumare, fumerai! Concentrati, idiota!»

John mandò un grido, tra le sue mani vi era una sigaretta accesa, ma l’aveva afferrata dalla parte sbagliata. Il folgorino rise allegramente: «Fuma, idiota!»

John fumò. La sigaretta era buona. Per John cominciò una vita nuova; il folgorino, sempre con il suo tono canzonatorio, lo istruì in molte cose, fraternamente, senza arie di superiorità chiarì per il poveretto gli infiniti punti interrogativi della sua nuova vita; da Mori apprese molte cose sul caporale Dan.

Dan era di religione quacchero; chiamato alle armi aveva chiesto e ottenuto di svolgere il suo servizio nella sanità, e diciannove anni prima, all’alba dell’intervento americano in Vietnam, era caduto perché si era offerto di andare a ricuperare i feriti sotto un cannoneggiamento. Erano morti tutti, lui e l’altro portantino, e Dan non poteva perdonare al destino la sua tragedia; per una curiosa deformazione mentale egli vedeva in ogni volontario – capovolgendo stranamente tutti i valori – la causa della sua fine precoce, e forse non riusciva a perdonare a se stesso di aver osato un’azione a cui nessuno l’aveva spinto. Allora Mori (il folgorino) lo aveva accolto, e tra botta e risposta, era nata una di quelle amicizie che può nascere solo tra compagni di una suprema avventura.

Naturalmente, i caratteri erano opposti, ma la carica vitale del folgorino era tale che Dan la subiva affascinato. Il toscano era un capo nato: pratico, semplice e gaio, facilmente entrava in sintonia con i sottoposti e, senza averne l’aria, ne conquistava la confidenza e una rispettosa familiarità che preludeva alle domande, alle sgridate, ai conforti. Nel centro di raccolta adesso non si lasciava più molto tempo a crogiolarsi o a auto commiserarsi; appena possibile ogni anima veniva posta in servizio attivo; del resto, l’incalzare dei fatti bellici lo rendeva indispensabile.

John e i suoi compagni impararono presto a rigettarsi nelle mischie, a stornare colpi micidiali da chi non doveva ancora morire, e ad accelerare la morte a quelli per cui l’ora era scoccata, ma soprattutto, a trascinar via, il più presto possibile dai campi di battaglia, i caduti ancora frementi. Spesso l’opera era veramente estenuante, specie per chi, come il soldato John, non era ancora perfettamente condizionato, ma la presenza e la parola del folgorino davano lievità, rischiaravano la cupa atmosfera.

«To’!» esclamò una volta «chi lo avrebbe detto. Quando vidi a teatro l’opera del vecchio Wagner, che mi sarei trovato proprio io a fare la Walchiria! Ehi, tu! Dove scappi?»

Così dicendo afferrò al volo un soldato che si voleva rigettare nella mischia: «Per te, carino, è finita; congedo illimitato ormai...».

«Lasciatemi!», ansimò l’altro. «Lasciatemi! Il mio compagno è rimasto là sotto...».

«Ah, bene, Dàmone e Pizia? Pilade e Oreste? Mi spiace, ma c’è abbastanza casino con i vivi, senza che se ne immischino i morti!»

«Ma io non sono morto!»

«Certo che non sei morto tra noi, ma sei morto laggiù, amico mio. Devi lasciare che il tuo Dàmone o il tuo Oreste se la cavi da solo... John, vecchio mio, occupatene un po’ tu! Insegnagli il Pater noster...».

«Ma è un vietcong!...»

«E con questo?»

John rimase interdetto, ma altri accorsero e trascinarono via lo smaniante. Quella volta Mori fece a John un severo predicozzo... «Sentimi bene tu: qui le balle della Terra sei pregato di dimenticartele... Qui non ci sono americani, vietcong o la miseria che preferisci; qui non ci sono comunisti, fascisti, nazisti, tedeschi, italiani, inglesi o spagnoli. Qui ci sono solo anime di uomini, più o meno coglioni, come me e come te, che han gettato alle ortiche la loro tonaca di carne e che, più o meno mal conciati, devono essere avviati alla loro destinazione. A noi non è chiesto altro, non dobbiamo fare altro; ogni caduto è un fratello e basta! Ognuno ha abbastanza guai per conto suo senza doverne aggiungere altri. La guerra è una sporca cosa, anche se talora inevitabile o forse necessaria; non sta a noi peggiorarla con la partigianeria. Tieniti in mente che io non sono il vecchio Dan, non ce l’ho con i volontari, ma con i partigiani sì; qualunque sia la loro stramaledetta parte. Qui non si parteggia per nessuno, ma si è al servizio di tutti, intesi?»

E il folgorino gli voltò le spalle senza ascoltare le affannose scuse di John. Ma non sempre si era in azione; vi erano anche lunghi periodi di quiete in cui le anime, attratte da affinità elettive, si riunivano in gruppi, paragonavano le varie esperienze, chiedevano e davano consigli. I superiori si vedevano di rado, pur essendo tutti molto affabili e gentili, mantenevano una rigida distanza e non interferivano mai con l’opera e le decisioni dei sottufficiali pre-indicati.

John, bloccato dalla timidezza, non aveva fatto amicizie; voleva chiedere molte cose, ma non osava; del resto, non avrebbe saputo a chi rivolgersi. Ricordava con intenso rimpianto la fulgida ora passata con il bonzo, la rievocava per trarne un senso di intima pace, di dolce speranza, ma con ciò rimaneva sempre solo, e finiva con il gironzolare intorno a Dan o al Mori, sempre burbero il primo, sempre canzonatorio il secondo. Eppure, un giorno, John, poté rendere un grande servigio a Dan, e quello fu il principio di una meravigliosa amicizia.

 

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Cap. 5

Aiutare si può: la buona idea di John

Quel giorno era molto tranquillo; la guerra taceva, non si prevedevano azioni e persino il burbero Dan era meno ingrugnito, con sua grande gioia si era incontrato con un pastore metodista e dopo una lunga discussione su una questione biblica, trovatisi alla fine d’accordo, si erano messi a cantare salmi; ma d’un tratto sul volto di Dan apparì un’espressione turbata, quasi angosciata:

«Che ti accade, fratello?», chiese premuroso il pastore.

«Mio Dio, mio Dio!», gridò Dan. «Sento mio figlio in pericolo! Accade qualcosa a mio figlio!»

«Preghiamo per lui», suggerì commosso il pastore.

Anche il folgorino, cui nulla sfuggiva, si accostò: «Che ti accade, vecchio? Vedi qualcosa?»

Dan si era concentrato e aveva sul volto un’espressione di orrore: «Sì, lo vedo.., su una strada, al buio, piove a dirotto... Un incidente con la motocicletta! Si sta dissanguando ed ha solo diciassette anni!»

«Presto!», proruppe Mori. «Andiamo a cercarlo, vediamo di prestargli soccorso!»

Un gruppetto si era stretto intorno a Dan. «Andiamo! ... guidaci! ...».

Senza essere invitato, John si era unito al drappello dei soccorritori. Per John, ormai il rapido spostamento nel tempo e nello spazio non era più una sorpresa; in pochi attimi gli spiriti si trovarono in una località dell’America del Nord, in piena notte e sotto una pioggia torrenziale. John vide una strada luccicante d’acqua dove saettavano automobili veloci. Al ciglio della strada, in un fossato, un groviglio di lamiere contorte, sotto le quali giaceva riverso il corpo di un giovinetto. Su questo corpo si levava una specie di sagoma grigia, unita allo stesso da uno strano cordoncino luminescente; e questa sagoma gemeva, invocava aiuto, ripetendo in un lamento: «Papà, Papà!»

«Sono qui, figliolo... Piccino mio, è qui papà!»

E Dan si gettò sul figlio prendendolo tra le braccia: «Sono qui, piccolo, non aver paura...».

«Aiutami, papà, aiutami! Dio! Come fa male!»

Il folgorino, con un’occhiata, si era reso conto dello stato del ferito: «Ha una gamba quasi tranciata; morrà dissanguato», disse. «Non c’è che da abbreviare l’agonia. Dan, recidi il cordone ombelicale».

«Sì... piccolo mio, non aver paura, non ti farò male. Vieni, vieni con il tuo papà...».

Ma la sagoma grigia si irrigidì con orrore, dibattendosi per sfuggire alle braccia affettuose: «No! No! Voglio vivere! ... Non puoi farmi questo, non voglio venire con te. Lasciami! ... Assassino!»

Dan, sconvolto, si volse ai compagni: «Dio mio, che fare? Che fare?»

Gli spiriti, sconvolti, guardavano la scena ormai all’apice del dramma; Dan cercò di tener più stretto il figlio, ma ne suscitò una ribellione violenta che tese pericolosamente il cordone luminescente. Il folgorino con pochi decisi passi magnetici arrestò l’emorragia, e il ferito cessò di dibattersi, rimanendo però in vigile difesa.

«Che fare?», gemette Dan.

«Non ne ho la più pallida idea, possiamo bloccare l’emorragia, ma ha già perso molto sangue e senza soccorsi immediati non potrà cavarsela. Non possiamo accelerare la fine, perché è chiaro che morirebbe da maledetto e si perderebbe».

«Aiutatemi, ragazzi...», supplicò disfatto e angosciato Dan.

«Ma insomma, non si può far ragionare tuo figlio? ... Già! Un bel discorso! ... Diciassette anni, una voglia di vivere da matti, e mi pare, ben poca istruzione religiosa».

«Caporale...», intervenne John, «…ma non possiamo fermare una macchina? Ne passano tante...».

«Potrebbe essere molto pericoloso John, con questa pioggia una brusca frenata potrebbe causare una serie di incidenti, e poi? Anche fermando una macchina, il guidatore guarderebbe dappertutto fuorché nel fossato».

«Ma là c’è una cascina», continuò John additando circa a trecento metri una costruzione completamente al buio.

«Sì, e che vuoi fare? Suonare il campanello? Lo sai meglio di me che i viventi hanno fette di salame sugli occhi».

«I vivi, in quanto uomini, sì, ma ci sono degli animali, ed essi sono sensibili alla nostra presenza... e...».

«John, sei un genio! Hai ragione! Andiamo!...»

In un attimo, John e il folgorino si trasferirono nella grossa cascina addormentata, e di lì a poco scoppiò il finimondo. Nella stalla le mucche, come impazzite, cercavano di spezzare le catene muggendo e scornando; nel cortile i cani ululavano; nella casa i gatti domestici sbuffando e graffiando ogni cosa balzavano rovesciando e rompendo oggetti; nel pollaio, un concerto di coccodè e chicchirichì assordanti annunziavano un’insolita presenza; il fracasso risvegliò gli abitanti che balzarono dal letto impauriti, luci si accesero, imposte sbatterono, qualcuno afferrata una carabina esplose colpi verso l’oscurità esterna, ormai vi era solo da convincere gli uomini a uscir fuori.

John e Mori si gettarono addosso ai cani che, pazzi di terrore, corsero verso la porta carraia ululando; i contadini, armandosi, scesero in cortile, aprirono la porta, uscirono sotto la pioggia notturna; i due grossi lupi erano balzati fuori, con alla coda i due spiriti, seguiti dalla gente. In pochi balzi i lupi giunsero sul luogo e, sedutisi di colpo, a un ordine magnetico, puntarono i musi verso il cielo ululando alla morte. I contadini scorsero subito il ferito...

Intanto il chiasso e i colpi d’arma da fuoco erano giunti anche sulla strada, le macchine rallentavano e si fermavano; qualcuno scese dalla macchina, ormai intorno al figlio di Dan vi era un capannello di soccorritori e Dan sospirò di sollievo. Un uomo si fece riconoscere come medico e si accostò al ferito; con pochi gesti esperti constatò la situazione: «Presto!», e chiese «una sciarpa, una cinghia, una corda, ha una gamba quasi staccata, non è ancora morto perché si è miracolosamente formato un grossissimo coagulo di sangue, ma potrebbe staccarsi di colpo...».

Dieci mani porsero gli oggetti richiesti, e sotto la pioggia tambureggiante, in un cerchio di fari puntati, il medico operò prontamente legando l’arteria. La sagoma grigia, che era il figlio di Dan, sembrò risucchiata all’interno del corpo; ora il luminescente cordone non si vedeva quasi più, era solo una debole pulsazione. Una barella fu improvvisata, il ragazzo vi venne adagiato con precauzione... «Bisogna chiamare un’ambulanza, se non sopraggiunge il tetano se la caverà con una gamba di meno.., i soliti pazzi rompicolli!»

«Bene!», disse allegramente il folgorino, dando un’amichevole pacca sulle spalle di Dan. «Tutto sommato al tuo ragazzo è andata bene, non farà il soldato, grazie a quei bravi animali e a John che ha avuto l’idea...».

John tentò di schermirsi, ma si trovò stretto tra le braccia di Dan che rideva e piangeva, trasfigurato dalla gioia. Ora aveva anche smesso di piovere. L’indomani, nella cascina, una bambina di dieci anni, che il fracasso non era riuscita a svegliare, narrò di aver visto in sogno due angeli luminosi vicino a lei. Naturalmente non si diede molto retta al sogno della fanciulla, ma qualcuno non poté fare a meno di ricollegare il sogno stesso agli avvenimenti della notte e al quasi miracoloso ritrovamento del ragazzo ferito.

Era scritto che per John, le sorprese e i cambiamenti non dovevano mancare. Ormai aveva realizzato la sua vita in quella dimensione come una lunga ferma militare impegnata a difendere, anziché ad offendere, ogni forma di vita. Naturalmente, disciplinato e obbediente, non trovava che quell’esistenza fosse molto strana o molto difficile. La personalità militare, che tuttavia lo plasmava, faceva sì che accettasse con tranquillità esercizi e istruzioni, la sua mente era avida di apprendere e di conoscere, anche se talvolta ciò che veniva a conoscere lo gettava in uno sgomento profondo. Si era fatto qualche amico: Dan non lo perseguitava più, e il folgorino non lo canzonava più a ogni piè sospinto; ma non poteva non porsi infinite domande, a cui nessuno sembrava disposto a rispondere. Una volta chiese al folgorino: «dov’è Dio?»

Questi gli aveva riso in faccia: «A me lo chiedi? Mi hai preso per un prete? Da qualche parte sarà. Che te ne vuoi fare?»

Ovviamente, la risposta non lo aveva soddisfatto, ma da allora non aveva più osato chiedere. Tuttavia, il pensiero di Dio l’ossessionava, rimpiangeva di non aver seguito il catechismo, di non aver letto la Bibbia, di non aver chiesto informazioni alla nonna così pia, così religiosa; la religione non curata, forse derisa in vita, era adesso in lui come una lacuna dolorosa, un vuoto che nulla poteva colmare.

Al centro, è vero, aveva visto qualche cappellano, qualche pastore militare, ma non osava avvicinarsi, forse temendo che una maldestra risposta lo ferisse nella sua sensibilità malata.

Due categorie di persone egli invidiava: i faciloni e i fanatici; per loro tutto era semplice, tutto era facile, non esistevano problemi, pure invidiandoli per istinto, ne stava lontano. Un misterioso lavorio dolce e crudele si svolgeva dentro di lui, dandogli una sorta di sfinimento, come un qualcosa che tentasse di nascere. Chiaramente, una volta sentì risuonare in sé una voce misteriosa, dolce ma imperiosa: «Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato!». John ne trasalì, travolto da un’emozione profonda, ma la voce non si ripeté, da allora vi fu in lui una struggente nostalgia, di un qualcosa desiderato fino allo spasimo, e tuttavia sconosciuto.

Una paredria[18] di cinque membri governava il centro di raccolta con imparziale austerità. Ad essa erano assoggettate molte migliaia di esseri trafelati, spauriti, provenienti dalle più disparate condizioni; esseri che si erano visti bruscamente conclusa l’avventura terrena.

In mezzo a questo coacervo di disperati, poche decine di efficienti spiriti erano, della paredria, gli esecutori fedeli. A questi spiriti di servizio, John era stato aggregato e cercava di fare del suo meglio, scrupolosamente obbediente, docile, attivo, ... ma spesso la sua buona volontà non gli bastava, e gli si faceva capire bruscamente che era meglio se si togliesse di mezzo, ed egli, con un sorriso soffocato, si toglieva di mezzo.

Il centro conosceva giorni tranquilli in cui un certo ritmo armonico governava ogni cosa, ma più sovente arrivavano masse in grande agitazione che si dovevano irreggimentare, dividere e avviare a questa o a quella destinazione; in quei giorni gli spiriti responsabili erano intrattabili, ed erano quelli i momenti in cui il mal capitato soldatino si accorgeva di sbagliare sempre, qualunque cosa facesse. E un giorno, emozionatissimo e spaventato, John fu convocato dalla paredria. Un «levati dai piedi!» dell’indaffarato folgorino, fu tutto il suo viatico[19].

 

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Continua….

 

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[1] Commandos: piccolo reparto di soldati o di marinai addestrati ad azioni di sorpresa o alla guerriglia.

[2] Puàh: esprime disgusto, disprezzo.

[3] Adonestare: cercare di far apparire onesto e buono ciò che non lo è.

[4] Pizzicagnolo: gestore di un negozio di salumi e formaggi.

[5] Teppa: con valore collettivo, vile gentaglia, capace di violenze.

[6] Bamberottolo: bimbo basso e grassoccio.

[7] Foia: eccitazione sessuale, specialmente negli animali. ‘Essere in foia’, indica una persona in senso dispregiativo, ed equivale a indicarlo eccitato e libidinoso.

[8] Ruzzanti: far giravolte, correre, saltare per divertirsi (proprio dei bambini e degli animali)

[9] Diaccio: sinonimo di ‘freddo’, viene usato in Versilia come adattamento dell’aggettivo ‘ghiaccio’.

[10] Svastica: simbolo solare di antiche popolazioni. In epoca recente tale simbolo è stato il contrassegno del nazismo. In sanscrito svastika, derivato di suasti «felicità».

 

[11] Ridda:  Antico ballo eseguito da più persone che, tenendosi per mano e accompagnandosi con il canto, giravano in tondo: far ballare una ridda

[12] Bonzo: sacerdote buddista. Dal giapponese bozu: «monaco»

[13] Giaietto: varietà di lignite detta anche «gagate».

[14] Viatico: l’eucarestia che viene somministrata ai moribondi. Perciò viene detto: “…portare, per ricevere il viatico”.

[15] Slang: termine con il quale si indica il complesso di espressioni e parole della lingua comune usate, però, in certi ambienti e in certi gruppi, con significato diverso e particolare.

[16] Stura: dar via libera.

[17] Ghirba: otre di pelle usato da tribù dell'Africa per trasportare l'acqua. Anche, la parola, portata in Italia dai soldati.

[18] Paredria: derivato dal greco antico "paredros" (πάρεδρος), significa "assistente" o "compagno che siede accanto", spesso in un contesto religioso o cerimoniale.  Nell’antica Atene, erano denominati i coadiutori dei primi tre dei nove arconti, scelti da questi magistrati in numero di due per ciascuno.

[19] Viatico: conforto, sostegno per chi sta per accomiatarsi da noi.