[cap. 38 - Tratto da “Giovanni l’annunciatore” di
Libia Martinengo – 1950]
Nella
cella in rapimento col Cielo
«Sì, io conosco l’amore,
ma esso è tale
che se mi bacia mi fa casto
se mi accoglie mi
conserva vergine»
1.
Tropheo, tornato al carcere, non osò entrare nella cella di Giovanni, poiché gli
fu detto che era con i suoi discepoli, ma non appena questi uscirono, il buon
uomo si precipitò, ansioso di preparare Giovanni alla preannunziata visita di Cuza, però lo trovò in preghiera, assorto in una profonda
meditazione.
2.
Tossicchiando e
stropicciando i piedi, cercò di attirare l’attenzione dell’orante; ma Giovanni, senza lasciarsi distrarre dalla sua
contemplazione, fece un solo gesto, al fine di allontanare il povero vecchio. Tropheo, non era ammesso nell’intimità dell’anima
giovannea, se lo fosse stato avrebbe visto un immenso
rogo di luminoso sfavillante amore divorargli tutta l’intima essenza. Più di un
re sul trono, Giovanni si sentì potente e libero in Dio, e nella sua
contemplazione trascese i Cieli creati, e ricordò un tempo, prima d’ogni tempo, in cui lui stesso non era, pur essendo un tempo vuoto
d’ogni cosa, e colmo, solamente tutto di Dio.
3.
Atomo vibrante
e implodente, egli era, beato di esser contenuto; poi giunse un altro tempo, in
cui si trovò in un vortice di cose, in un esplodere multiforme d’energie, in un
vorticoso folgorio di manifestazioni del divino pensiero, ed egli stesso, pensiero operante, vide soggette a sé schiere e schiere di
creature meravigliosamente belle, potenti e felici, e vide queste creature
stesse operare secondo un ritmo prestabilito nel quale ognuno figurava un
movimento di danza. Poi vide se stesso, essenza adorante, prosternata innanzi
al prodigio dei prodigi, all’uomo generato e non fatto, sbocciato da Dio come
una fiamma da una fiamma, separato e unito al tempo
stesso, principio e fine d'ogni cosa. Oh, l’empito[1]
d’amore, per cui si sentiva beato di adorare,
…insaziato di ardere. Poi tutto si oscurò, un gran dolore stese ali nere sopra
l’oceano di luce, come stelle cadenti egli vide degli angeli precipitar dal
Cielo e apprese un nome nuovo e terribile ‘male’!
Quel male, …che ogni cosa contaminava, e l’uomo, il prodigio vivente, se ne
lasciava contaminare: la Luce non era più luce, la Legge non era più legge!
4.
Urto di
giganti, Cieli contro cieli, e potenze contro potenze;
ogni principio investì il suo opposto, il dualismo s’impose nell’universo. Oh,
pianto non umano e non divino di una Legge infranta, il
dolore di un serafino creato per essere felice, devozione d’obbedienza,
adorazione più profonda verso l’Unico ardore inconsumato
e inconsumabile. Oh, un sorriso senza volto, un bagliore interiore, un fluir
della mente in cui adagiarsi, come un pesce nel mare, come un anelito a
riessere nell’unità! Obbedienza senza confine! Si ama chi non merita amore, si
serve chi non merita servizio, …è Lui che lo vuole!
5.
Lui chi? – Lui,
da Cui tutto principia!
6.
Tentazione
inutile, contrasto vivente, l’illusione vinta precipita; sorge ancora l’aurora
dal caos!
7.
«Bella tu sei, come
la più bella delle forme umane. Ma che ho da fare con
te?».
8.
«Io sono l’anima
d’Elia il profeta, tu devi rivestirti di me. Obbedisci,
serafino, Dio lo vuole! Tu sostituisci il
mio principio vivente che si è riunito all’Uno; tu ed io torneremo sulla Terra!».
9.
«No! Lasciami, che
io non sono uomo!».
10.
«Lo diverrai per me!
Obbedisci!».
11.
«Signore del Cielo e
degli abissi! Sia dunque fatto il Tuo volere. Ecco che io scendo. Chi mi
attenderà?»
12.
«Ti attendo Io, Io il Figlio dell’uomo,
...l’Amore! Va, dunque, o Legge, a coronar la Giustizia! Abbassati o
Cielo, affinché la Terra salga! Prostratevi o angeli! O uomo, …il vostro
Signore incede! A te, in premio della tua dedizione, la
coscienza d’amare; a te serafino,
riconoscere il Figlio dell’uomo e additarLo agli
umani. E adesso, che vuoi ancora?».
13.
«Morire, se ciò non
è colpa, perché io più non reggo a questa soma opprimente! Morire per adorarTi meglio. Ma sia fatta la
Tua volontà!».
14.
Come un
pezzetto d’oro puro in un’acqua limpidissima, il principio spirituale di
Giovanni affondò nella mente di Dio, immerso in un’adorante contemplazione che
annullava l’anima. Egli trascese ogni limite per rifondersi anelantemente
nella divina Essenza che lo aveva emanato. Di là, placidamente, contemplando le
opere e le epoche con lo stesso pensiero divino tutto prevedendo, ogni cosa
perseguiva il bene supremo, poco causandone i mezzi: torrenti incandescenti
d’amore rifluirono nel cuore di Dio da ogni parte dell’universo, e come
scaturigine d’acqua vivente, l’amore eruppe nel cuore di Dio verso ogni cosa
creata, in un ricambio di perfezione. Creatore e creature si amarono, e
Giovanni si sentì così permeato e imbevuto d’amore, da averne uno stordimento
soave, tanto da esser doloroso. Eppure bramava unicamente che quella comunione
non avesse a cessare mai, pur ricominciando sempre ogni sua possibilità di
essere, essendo interamente assorbita e arsa dalla contemplazione estasiata. In
quello stato, sospeso dalla vita dei sensi, Giovanni non viveva sopra la Terra
che la pura vita vegetativa, così non s’accorse che
era entrato Cuza. Tropheo
era entrato dietro di lui, ma con suo grave disappunto vide Giovanni non solo
non far minimamente cenno di accorgersi dell’entrare del gran personaggio, ma
rimanere cosi, perfettamente immobile, come se la cella, e quanto lo
riguardava, non esistessero addirittura.